il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2023
Intervista ad Alberto Marozzi
Le istantanee della sua vita sono talmente tante, incredibili e varie da sembrare un album della Panini. Non di calciatori. Ma di musicisti (“Ho conosciuto dai Beatles agli Stones; da Springsteen fino a Iglesias. Ma soprattutto ho suonato con Hendrix”); quindi gli attori (“De Niro? Certo, e poi Verdone. Anzi, Carlo è uno dei miei migliori amici”); fino ad arrivare ai papi (“Giovani Paolo II l’ho incontrato più volte”).
Tutti sono o sono stati sull’agenda di Alberto Marozzi.
A differenza dell’aspetto da rockettaro, giubbotto di pelle e stivali, la sua vita sembra più suonata sui ritmi imprevedibili del jazz, con note che sanno di avventura e improvvisazione, l’uovo oggi piuttosto della gallina chissà quando (“Ora non ho quasi più nulla”); note di amicizia, a volte fratellanza, di amori impossibili diventati possibili per qualche ora. Lui è la personificazione del Manuel Fantoni di Carlo Verdone, il bellone, sbruffone romano che seduceva con foto false di vip, con dediche altrettanto fasulle. (“Molte battute e storie di Carlo vengono da me. Io sono un Fantoni meno bello, però vero”).
Lei da dove arriva?
Nasco nel 1944 da una ragazza madre, porto il suo cognome; da lì è iniziata la mia gavetta, tra i collegi gestiti da religiosi: mamma lavorava a servizio.
Suo padre?
Conosco il nome, ma non l’ho mai visto neanche in foto: mamma lo aveva eliminato dalle istantanee, tutte tagliate.
E in collegio?
Ho beccato di tutto, pure i preti pedofili; ai tempi la scampai perché ero troppo magro, piccolino in altezza e già scafato da altri collegi: beccai il prete mentre abusava di un ragazzino, questo prete sistematicamente mi picchiava, allora barattai il silenzio con una tregua; ho sbagliato e mi sono pentito, ma si chiamava sopravvivenza (abbassa la testa).
A cosa pensa?
Un giorno, grazie a Rutelli, incontro Giovanni Paolo II, ci presentano, e il Papa: “Lo conosco”. Al Costanzo show avevo denunciato questa storia e l’aveva visto.
Lei è ovunque…
Ho conosciuto il mondo.
Questa sua “agendina” da dove nasce?
Dal Piper (storico locale romano, ndr): ero sempre lì.
Mita Medici racconta che è stato lei a portarla.
È vero, come Patty Pravo, tutti sulla mia Fiat 500.
La 500 raccontata da molti, compresa la Pravo.
(Inizia l’elenco) Ci sono saliti personaggi pazzeschi, da Santana ai Bee Gees a Steve Winwood; a Steve ho prestato la casa per una notte con una mia amica, poi si sono sposati.
La Pravo narra di una canna con Hendrix. E proprio nella sua 500…
La storia dello spinello non è così, ma con Nicoletta non ero così intimo come con Mimì (Mia Martini, ndr); con Mimì di notte restavamo in auto ad ascoltare la musica, poi decidevamo di partire, senza meta, solo per chiacchierare e cantare Cat Stevens o i Beatles.
Insomma, niente canne.
Jimi no, quello spinello era dei suoi due musicisti; per la nebbia nell’abitacolo ero costretto a guidare con la testa fuori dal finestrino; (sorride) quella macchina ne aveva di storie da raccontare perché a quel tempo gli impresari mi chiamavano per portare in giro questi super personaggi.
Sempre lei…
Conoscevo l’inglese meglio dell’italiano e suonavo la batteria al Piper: così ho diviso la mia vita con i miti.
Come con Hendrix.
Con l’organizzatore dei concerti terrorizzato: ‘Albertì, occhio, pare sia matto’; (ride) pensare che in realtà ero un operaio: la mattina nella fabbrica di missili, la sera in mezzo alle star.
Bella distanza.
Io pacifista, andavo a lavorare con il braccialetto “fate l’amore e non la guerra”; i responsabili incazzati, fino a quando una mattina mi hanno bloccato e tagliato i capelli. Sono stato costretto a denunciarli.
Torniamo a Hendrix.
Entro nel suo camerino e scopro una persona molto carina, calma, accogliente; io impreparato a trovare un uomo del genere, ero condizionato dai pregiudizi.
Era già un suo idolo.
Musicalmente conosciuto grazie a Charlie Watts (batterista dei Rolling Stones, ndr): l’anno prima, nel ’67, ero nella sua camera d’albergo e con un registratorino della Philips ci fece ascoltare Hey Joe; io emozionatissimo.
Per Watts o Hendrix?
Per Jimi! Così emozionato da restare zitto davanti a lui, caso raro per me. Fu lui a togliermi dall’imbarazzo: ‘Che fai nella vita?’. ‘Lavoro in fabbrica, ma suono la batteria; ho un gruppo e conosco i tuoi pezzi’.
Carta d’identità perfetta.
Dopo i due concerti del primo giorno (24 maggio ’68) andiamo al Titan, dove normalmente c’era musica dal vivo: Jimi vede il palco e decide di suonare. Chiede una chitarra in prestito, solo che lui era mancino, quindi la sistema al contrario (pausa)…
E poi?
La sera successiva stessa scena: tutti al Titan, solo che questa volta aveva con sé la sua chitarra; di nuovo chiede di suonare, ma i suoi due musicisti erano strafatti, allora si gira verso di me: ‘Alberto, suoni con me?’. Io pensavo di svenire (qui cambia postura, voce, atteggiamento; qui non si capisce se è lui o Verdone in “Troppo Forte” nella scena in cui dice “Daje, batti il ciak”).
Quindi…
Ho guardato il mio amico Piero: ‘Te va de fatte ’na session con Jimi?’. E allora ci siamo piazzati, ho battuto il tempo con il piede e via.
In quei momenti a cosa pensava?
Che quando a cinquant’anni lo avrei raccontato nessuno mi avrebbe creduto; per fortuna c’erano tanti testimoni, come Arbore e Minà.
Di sicuro suoi amici.
Per due anni sono stato l’assistente di Gianni e l’ho accompagnato ovunque, mi ha presentato chiunque: dalla Nazionale di calcio a De Niro, fino a portarmi sul set di C’era una volta in America; con Gianni ho fatto una figura di merda.
La confessi.
Mi sono fatto fregare l’auto che aveva in dotazione; (si alza in piedi, torna al suo “Jimi”) ho pure una sua dedica (e indica una parete dove ha incorniciato una foto di Hendrix); e non è finita qui: dopo la seconda serata lo porto in giro per Roma, tra Colosseo e Villa Medici, poi verso le quattro del mattino lo lascio in albergo. Ci salutiamo. Torno in macchina. E vedo la sua chitarra sul sedile. La prendo e la consegno al portiere. Che errore.
Super corretto…
L’aveva comprata a Roma, non era preziosissima, lui ne sfasciava in continuazione, però ci aveva suonato e l’avrei ceduta nei momenti di difficoltà.
Ne ha passati?
Eccome, sono arrivato a vendermi tutto, pure l’Lp degli Who con sopra le loro dediche: 80mila lire negli anni 70.
Come mai gli alti e i bassi?
Sono così, soprattutto dopo l’addio alla casa discografica.
Che era successo?
Ero direttore dell’ufficio di Roma e responsabile della promozione per la Cbs; da quell’ufficio sono passati tutti, da Lucio Dalla che mi veniva a chiedere i dischi di Bob Dylan fino a Venditti e De Gregori. Francesco era un mio fan…
In che senso?
Quando suonavo anche lui frequentava il Piper e come musicista facevo molta scena, avevo la batteria tutta a fiori, vestivo all’inglese, un po’ di show…
Insomma, l’addio?
Ero amico di Pino Daniele, so che gli scade il contratto con la Emi e mi chiede di passare con la mia casa discografica: ‘Pino, magari, a quali condizioni?’. ‘Ho già il disco pronto, ma ho bisogno di 50 milioni. Con 25 liquido il mio vecchio manager’.
E…
Quel manager non era una persona limpida; allora vado a Milano, spiego ai vertici la questione, incontrano Pino; dopo pochi giorni mi informano che per loro era un musicista locale, ‘va bene per Napoli’. Mi sono licenziato.
Tranchant…
Mi avevano già bocciato Venditti per Sotto il segno dei pesci e Bennato con Burattino senza fili. L’unico che avevano preso era Baglioni, strappato per 1 miliardo e mezzo; (pausa) a Baglioni 1 miliardo e mezzo e neanche 50 milioni per Pino?
Lei e Daniele legatissimi.
(Si alza e mostra le foto di vacanze a Formia) Per un periodo, quando viveva qualche crisi sentimentale, chiamava me e lo raggiungevo a casa sua; ricordo una mattina con lui che mi sveglia, si piazza sul mio letto, caffè e chitarra, e inizia a suonare un brano che aveva appena composto. Stupendo. Era uno dei pezzi di Bella ’mbriana.
Alcuni dei suoi ex compagni di strada non ne parlano sempre benissimo…
A Pino hanno rotto le palle fino a quando non è tornato a suonare con loro; mi ha pure insegnato a come lavare la biancheria intima in albergo, lui esperto per le tournée.
Condividiamo la dritta.
Basta lavare le mutande, piazzarle dentro un asciugamano e strizzare tutto; a quel tempo, anni 70, non avevamo una lira, però ci divertivamo, condividevamo e un pomeriggio ho suonato con lui i brani di Jimi. Anche qui: se avessi quella registrazione, sarei sistemato.
Occasione persa…
Uno dei miei massimi l’ho raggiunto con Mario Schifano: mia madre si chiamava Palmina, detta Palma. Una mattina Mario mi chiama: ‘Vieni in studio’ e lo trovo buttato a terra, mentre dipinge con le sue vernici. ‘Ho realizzato questa cosa per mamma tua’. Era una palma.
Il suo simbolo…
E aggiunge: ‘Vieni tra una settimana, così la vernice è asciutta, poi è tua’. Aspetto, torno, l’arrotolo e la porto a casa. Solo che con mamma vivevamo in venti metri quadri, sotto terra, in mezzo ai bacarozzi. Così srotolo il quadro e mamma inizia con gli interrogativi: ‘Do’ lo mettemo? Che ce famo?’. L’ho riportato a Schifano.
Ha pure recitato in tanti film…
Il primo nel 1965, Le sedicenni: sono entrato nel cast perché conoscevo l’amante del produttore, che poi era la mamma del mio chitarrista; per girarlo mi davo malato sul lavoro, poi ero piaciuto al regista, che dopo mi propose di girare il Carosello dell’Algida: 1 milione e mezzo di lire l’offerta.
E pure qui…
In fabbrica me l’hanno impedito; poi nel 1968 tornai su un set grazie a Boncompagni, grande amico. Era per Colpo di sole.
La lista degli amici noti aumenta…
Ho frequentato chiunque: (altro elenco) da Allen Ginsberg a Sean Connery e Celentano; con Raffaella Carrà giocavo a scopetta; poi da Robert Mitchum a David Bowie, quest’ultimo conosciuto sul set di Giovanni Veronesi (Il mio West), dove c’era pure Pieraccioni.
Con Pieraccioni ha recitato in quattro film?
Leonardo l’ho conosciuto insieme al povero Francesco Nuti e a Giovanni (Veronesi): un giorno vado in Rai per portare gli inviti alla festa dei miei cinquant’anni. Ci vediamo. E Giovanni: ‘Che, non dai l’invito a Leonardo?’. ‘Va bene’. E rivolto a Pieraccioni: ‘Leona’, dai il tuo numero a Marozzi, perché se non stai sulla sua agenda non diventerai mai nessuno’. Al mio compleanno c’era il mondo, ero io il meno famoso tra i presenti (si distrae, si alza, prende una foto).
Chi è?
Pamela Curson, la moglie di Jim Morrison. Che donna. Che serata.
Pure lei?
Mi aveva regalato un suo disegno, ora ho solo la fotocopia.
E l’originale?
Venduto, insieme al bracciale originale di Morrison.
Si è sbarazzato di tutto…
Non ho più un cazzo, mi è rimasta solo la chiavetta del rullante di Keith Moon, però ho con me ricordi fantastici, (ride) pure intimi.
In che senso?
Sa quante punture ho fatto?
Punture di cosa?
Ricostituenti! (Ricominciamo con l’elenco) A Ferruccio Amendola, Loredana Berté, Fiorello, Alberto Sordi…
Ha toccato il culo di Sordi.
Certo, quando l’ho portato ospite da Baudo; ma ho una tecnica pazzesca (mima la tecnica). Alberto stupito: ‘È la più bella puntura della mia vita’.
Ma i soldi…
Ho pure vinto 50 milioni al Casinò di Sanremo.
A cosa?
Alle slot.
Impiegati, come?
Non impiegati, sputtanati.
Ha qualcosa da parte?
Niente.
Chi è lei?
Uno che si è divertito tanto.