il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2023
Due o tre cose che so di Vittorio Feltri
Estate 1993. Vittorio Feltri dirige l’Indipendente da un anno e mezzo e l’ha portato dalle 19mila copie cui l’aveva lasciato l’ameba similanglosassone Ricardo Franco Levi a 120mila, un exploit unico nella storia dei quotidiani italiani del dopoguerra.
Tutto sembra andar bene. Se Montanelli lascia il Giornale, come deve fare perché Berlusconi è diventato un uomo politico, ci arriverebbero senza colpo ferire altre 40 o 50mila copie e l’Indipendente potrebbe diventare Repubblica degli anni Novanta e del Duemila e oltre. In agosto Vittorio mi invita a cena, in una normale pizzeria perché allora non amava i locali eleganti che predilige oggi e non cercava di vestirsi “all’inglese” (nel Cyrano lo prenderò bonariamente in giro: “Nessun inglese si è mai vestito all’inglese”). Feltri mi fa questa terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. E io a cercare di spiegargli che è un errore, professionale, politico e anche, a parer mio, personale. Finita la cena, entrambi un po’ brilli, alziamo i calici di vino e Vittorio dice: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si sarà ripetuta almeno quattro volte. L’ultima “in culo al Berlusca, restiamo all’Indi”, il giorno dopo passa al Giornale. E lì da forcaiolo che era (“il cinghialone” appioppato a Craxi trasformando così le legittime inchieste di Mani Pulite in una sorta di caccia sadica, Carra in manette sbattuto in prima pagina, accanimento sui figli di Craxi, Stefania e Bobo che toccò a me difendere) iniziò a bombardare Mani Pulite e a difendere i tangentari. Io gli diedi del “traditore”, del “voltagabbana” ma lui, che pur come ogni prima donna è permalosissimo, me la lasciò passare. Feltri si portò via tutta la struttura dell’Indipendente e tutti gli editorialisti. Io rifiutai. Il giovane editore Zanussi ebbe la dabbenaggine di chiedere proprio a Feltri di indicargli un direttore per l’Indi e Vittorio scelse ovviamente “il peggio fico del bigoncio”, Pia Luisa Bianco. Avrei potuto farmi avanti e certamente la direzione me l’avrebbero data perché, dopo Feltri, ero la prima firma del giornale. Ma non lo feci perché non mi sentivo in grado di dirigere un giornale e comunque con Vittorio dall’altra parte non ci sarebbe stata partita (una volta Vittorio mi confidò: “Tu scrivi meglio di me”; “Può darsi – risposi – ma io non sono in grado di dirigere un giornale visto che non sono capace di dirigere nemmeno me stesso”).
Senza Feltri, la struttura che aveva creato e gli editorialisti che si era scelto, l’Indi capitombolò. Feltri più volte mi aveva fatto offerte perché andassi con lui al Giornale e alla fine, visto che la situazione precipitava, decisi di accettare. Combinammo i termini della collaborazione. Dovevo solo parlare con l’amministratore Roberto Crespi per formalizzare il contratto. Crespi mi parlò per mezz’ora, in termini quasi militari, delle strategie e delle tattiche del Giornale, cose che a me interessano nulla. Per interrompere quell’insopportabile arringa gli chiesi a che squadra tenesse. Disse: “Tenevo alla Juventus, ma adesso tengo al Milan perché mi piace il bel gioco”. Tornai da Feltri: “Non vengo più”. Se non si poteva nemmeno tenere alla squadra del cuore, era chiaro che, nonostante tutte le assicurazioni che mi aveva dato Vittorio, non avrei potuto scrivere liberamente.
Il miracolo dell’Indipendente fu dovuto anche al fatto che Vittorio vi faceva scrivere tutti, di destra, di sinistra, di centro e pure estremisti di ogni sorta, ma il giornale conservava un’unità e un’identità ed era proprio lui a dargliela. Si era inventato il “feltrismo”. Dopo che era passato al Giornale lo accompagnai a Bergamo, la sua città. Il pubblico, tutto leghista, rumoreggiava contro di lui. Dissi:”Non potete insultare così un uomo che vi ha sostenuto per anni”. Sotto il banco Vittorio mi strinse la mano. È l’unico contatto fisico che ho avuto con lui, ma ciò che davvero ci unisce è una forte malinconia di fondo.
Un altro exploit Feltri lo aveva fatto con l’Europeo diretto da Lanfranco Vaccari: lo portò da 80mila a 120mila copie. Dell’insuccesso dell’Europeo di Vaccari io ero in buona parte responsabile. Il giovane Vaccari mi aveva assunto perché oltre alle solite inchieste ed editoriali, gli facessi anche un po’ da ‘consigliori’. Io, ispirandomi all’Europeo di Tommaso Giglio, volli un giornale molto rigoroso, quasi khomeinista. Ma non funzionò, altri tempi, di sbraco direi, stavano venendo avanti.
Di fronte al fenomeno Lega, Feltri si comportò come sempre dovrebbe comportarsi un giornalista: non lo demonizzò, come tutti gli altri giornali, ma cercò di osservarlo e capirlo e, poiché io questa posizione l’avevo assunta almeno un anno prima di lui, ciò spiega il successo del suo Europeo: la Lega di Bossi al Nord prendeva quasi il 50 per cento.
Anche quando eravamo in freddo, come è stato spesso nella nostra altalenante amicizia, Feltri mi pubblicava pezzi che nessun altro giornale avrebbe osato pubblicare. Uno, “Cerco Ideali. E sono disposto a tutto”, iniziava così: “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afghano, un iracheno, un ceceno che si batte per la libertà del proprio Paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lottava con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo. Vorrei far parte dei ‘boat people’ che vengono ad approdare e spesso a morire sulle nostre coste. Perché sono spinti almeno da una speranza. Vorrei essere ed essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per 60 anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”.
Tutto si può rimproverare a Feltri tranne che gli manchi il fiuto del giornalista. Mi venne in soccorso anche in un’altra occasione. In un giugno canicolare e patibolare la Rizzoli mi aveva liquidato, con altri giornalisti un po’ stupiti di vedermi lì, nell’agenzia del lavoro di via Lepetit 8 senza farmi ricevere neppure dall’ultimo dei manager. Io rimuginai l’amarezza per un mese, poi telefonai a Vittorio con cui all’epoca ero ai ferri corti: “Vuoi sapere cosa succede realmente al glorioso gruppo Rizzoli-Corriere della Sera?”. Lui pubblicò due mie colonne in prima pagina e due pagine interne. Ogni frase era da querela, se non fosse stata vera. Ma i dirigenti del Gruppo Rcs non alzarono orecchia. Aggiungo, di passata, che al gruppo Rcs avevo lavorato complessivamente per vent’anni, scrivendo più articoli di qualunque altro fosse passato, almeno a quel tempo, da quelle parti e lasciandoci anche qualche brandello di salute. Alla Pirelli avevo lavorato due anni dando più fastidio che altro. Ma fui ricevuto per mezz’ora dal capo ufficio stampa e pubblicità Ghisalberti e poi dall’amministratore delegato della Pirelli, Franco Brambilla, cognato di Leopoldo Pirelli, al prestigioso trentesimo piano del grattacielo di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi. Brambilla mi accolse così: “Preferisce un caffè o un bourbon?”. “Bourbon, naturalmente”. E così in quello strano modo brindammo alla mia uscita dalla Pirelli. Brambilla mi parlò come un sessantenne può parlare a un ragazzo di poco più di vent’anni: “Capisco che a un ragazzo come lei un ambiente come quello della Pirelli provochi sofferenza. Ma nella vita ogni cosa serve. Lei è un ragazzo intelligente e vedrà che troverà la sua strada”. Non mi pare abbia sbagliato di molto. Se quelli del gruppo Rcs avessero mostrato verso di me non dico dell’umanità, ma almeno un po’ di sensibilità, si sarebbero risparmiate quelle pagine feroci che scrissi poi sul Giornale.
A quell’epoca Feltri e io non sapevamo neanche dell’esistenza dell’uno e dell’altro, lui era un cronista abbastanza anonimo dell’Informazione, io un disoccupato. Feltri lo conobbi veramente quando nel 1989 arrivò all’Europeo. La redazione fece uno sciopero sciocco, a cui partecipai anch’io, perché gli si rinfacciava di essere arrivato a quella posizione perché legato a una figlia di Biagi, Bice. Mi telefonò per chiedermi un pezzo. “Non posso, c’è lo sciopero”. Ma poco dopo lo raggiunsi all’Indipendente e qui il cerchio si chiude.