Domenicale, 25 giugno 2023
Nascita e destino del «totalitarismo»
Perché nell’Italia repubblicana i termini “totalitario” e “totalitarismo” non compaiono se non a margine della storiografia? La risposta probabile è che molti intellettuali vicini alla sinistra comunista non hanno mai considerato il regime sovietico una dittatura totalitaria al pari di fascismo e nazismo, e perciò hanno evitato di usare il termine generalizzante che, invece, è divenuto comune proprio in Italia negli anni 20 e 30 del Novecento per i democratici tra cui Gaetano Salvemini che denunciò il parallelismo tra fascismo e comunismo al “Congresso internazionale degli scrittori antifascisti” di Parigi del giugno 1935. Nel secondo dopoguerra Hannah Arendt ne Le origine del totalitarismo – apparso in Italia solo nel 1967 per le olivettiane Edizioni di Comunità – equiparava nella categoria “totalitarismo” l’Unione Sovietica di Stalin e la Germania nazista di Hitler, pur distinguendo le varie fasi dei due regimi.
Nel dopoguerra il dibattito sul totalitarismo in Italia è stato messo da parte per l’influenza esercitata dagli ambienti culturali vicini al Partito comunista. Eppure il termine “totalitario” era stato coniato proprio a casa nostra per designare il modo nuovo in cui operava il movimento fascista rispetto al passato. Emilio Gentile, a cui si deve la definizione di fascismo come movimento totalitario, documenta in Totalitarismo 100. Ritorno alla storia (Salerno editrice) che l’aggettivo “totalitario” e il sostantivo “totalitarismo” furono coniati negli anni Venti non già per definire il fascismo come ideologia, bensì per indicare «la sua azione pratica, compiuta come partito e come governo, per consolidare il potere conquistato … con la violenza squadrista e con la repressione governativa al fine di rendere impossibile ogni attività e manifestazione politica ai partiti avversari, considerati nemici da eliminare». Nell’ottobre 1922 gli squadristi marciarono su Roma; nel giugno 1924 fu assassinato Giacomo Matteotti; nel gennaio 1925 Mussolini enunciò in parlamento il progetto dittatoriale; e nel 1926 furono varate le “leggi speciali” con la soppressione delle libertà individuali e dei partiti. In quegli anni alcuni tra i maggiori leader antifascisti usarono il termine “totalitario” per definire la centralizzazione dello Stato, il controllo dell’economia e l’uso della violenza che appariva simile a quella dei bolscevichi in Russia. Don Luigi Sturzo, in Italia e fascismo pubblicato a Londra nel 1926 parlava della novità del movimento armato giunto al potere come partito insurrezionale totalizzante in cui «il nazional-fascismo faceva la parte del tutto» e «il resto del Paese doveva restare il nulla». Giovanni Amendola dall’Aventino paragonava l’azione del fascismo in Italia al bolscevismo in Russia, come «totalitaria reazione al liberalismo e alla democrazia», e un argomento analogo era sostenuto dal democratico Luigi Salvatorelli che già nel 1921 metteva in risalto le principali affinità fra la rivoluzione russa e quella fascista. Con il consolidamento del regime fascista e la diffusione di analoghi movimenti violenti in Europa negli anni Trenta, il termine “totalitario” si estese innanzitutto al nazionalsocialismo che eresse la pratica autoritaria a sistema ideologico di Stato.
In Italia con la Resistenza l’antifascismo, che era stato patrimonio di una minoranza, fu trasformato dalla sinistra nel mito antifascista fondante la nuova democrazia di cui il Pci doveva essere il pilastro: gli antifascisti non potevano essere ostili alla forza portante della Resistenza che aveva sconfitto il nazifascismo e introdotto la democrazia in Italia. Il “totalitarismo” come categoria era una pura astrazione: secondo questa retorica i veri protagonisti della storia erano fascismo, antifascismo, comunismo, e democrazia … Negli anni della Guerra fredda si allargava la frattura tra gli intellettuali vicini ai comunisti e gli intellettuali in senso lato liberali: tra i primi, ad esempio, si collocava in Europa il britannico Eric Hobsbawm che aveva dubbi sull’utilità del termine totalitarismo come autonomo fenomeno storico, posizione condivisa dal polacco Walter Laqueur che nel 1985, alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica, si domandava «C’è ora, o c’è mai stata, una cosa come il totalitarismo?». Sessanta anni prima, nel 1924, Antonio Gramsci polemizzava con i democratici che proclamavano l’analogia tra fascismo e bolscevismo e bollava il liberale Giovanni Amendola, il popolare don Sturzo e il socialista Filippo Turati come «semifascisti da abbattere». Tra i gli intellettuali anti-totalitari, ben presenti in Europa ma rari in Italia, spiccavano Raymond Aron in Francia, George Orwell in Inghilterra e i sopravissuti ai lager e gulag.
A cento anni dalla nascita del termine è utile riproporre la discussione. Archiviate le ideologie totalitarie che hanno creato nel Novecento le “terre di sangue”, sembrava che l’intervallo di pace in Europa fosse illimitato. L’aggressione all’Ucraina, tuttavia, è divenuto un sintomo inquietante: per il virus che sta distruggendo una parte dell’Europa, è opportuno riprendere il termine “totalitarismo”: come nel 1919, nel 1922 e nel 1933, dietro il concetto apparentemente astratto, c’è l’antitesi tra la democrazia liberale con tutti i suoi limiti e la visione totalizzante della società tutta ricompresa nello Stato che può assumere varie forme. Può essere quella della Russia di Putin, della Cina di XiJinping, dell’islamismo integralista, o di altri casi. A tutto ciò gli storici possono dare il nome di “totalitarismo”: Emilio Gentile ha il merito di ricordare che proprio in Italia è iniziata l’offensiva totalitaria.