Domenicale, 25 giugno 2023
Cosa resta di Giuseppe Pontiggia
Quattro, come i punti cardinali, sono i lasciti che Giuseppe Pontiggia (25 settembre 1934 – 27 giugno 2003), romanziere e critico, traduttore, consulente editoriale e altro ancora (tra cui speciale collaboratore del Domenicale), ha donato alla letteratura.
Lo ha fatto, ecco il primo, con il sentimento che la letteratura alta racchiude in sé energie espressive e conoscitive tali da poter dissolvere forme e strutture della tradizione e così rinnovare non solo sé stessa, ma anche ogni campo della vita civile e della cultura, dalla politica alla morale. Bastino il romanzo affresco della società e dei caratteri italiani La grande sera (1989, premio Strega), le riflessioni sulla disabilità in Nati due volte (2000, premio Super Campiello), le acute note di costume in Prima persona (2002): mosaico-collage di passi dei suoi Album mensili usciti proprio su questo supplemento domenicale del Sole 24 Ore (febbraio 1997-maggio 2002).
Il secondo lascito è la consapevolezza che alla letteratura vada restituito quel tempo-spazio “lungo” di cui si discuteva all’interno della banfiana Scuola di Milano e di cui parlava Enzo Paci in Tempo e relazione (1954): è la stessa condizione umana, naturale e storica, a farci vivere nell’oggi il nostro passato come presenza per il futuro. Da ciò l’amore di Pontiggia per i classici, la tersa visione delle divergenze e convergenze da essi imposte nel rapporto a distanza con le loro parole: i cui significati e valori vanno di continuo scoperti e riscoperti anche nello scavo etimologico.Nei saggi I contemporanei del futuro (1998), il postumo I classici in prima persona (2006), ma pure Il giardino delle Esperidi (1984) e L’isola volante (1996), Pontiggia ne rievoca proprio il magistero, nei fatti risultando lo scrittore che più di ogni altro ne ha asserito organicamente la vitalità: un ponte per oltrepassare limiti culturali artificiosamente creati dagli intellettualismi novecenteschi, per aprire orizzonti nuovi alla letteratura nella misura di una parola tanto limpida, di chiara comprensione, quanto profonda.
Con le sue opere – ad esempio, nella sintassi boccacciana dell’incipit del romanzo Il giocatore invisibile (1978), o anche con Vite di uomini non illustri (1993, premio Super Flaiano) – Pontiggia ha mostrato di non mirare all’imitazione dell’umanesimo classico, bensì ad assumersi la responsabilità di immettere nella storia e nella società contemporanee una tensione umanistica: un indirizzo nuovo di civiltà e cultura, di idealità umanistiche conquistate con duro esercizio e nel confronto con le aporie del moderno.
Nel dibattito acceso alla fine della Seconda guerra mondiale sulle responsabilità della cultura nella catastrofe nazi-fascista, Luciano Anceschi aveva pubblicato a Milano Civiltà delle Lettere (IEI, 1945): un volume su Petrarca e i suoi critici, Daniello Bartoli e Vico, nello «spirito di un umanesimo presente e attivo, in cui le verità del passato son ravvivate da quelle odierne, e quelle odierne trovano la loro garanzia e certezza nelle passate (…) sempre in un discorso metodico di antidogmatico e antimetafisico razionalismo critico», come vi precisa la «Giustificazione letteraria».
La rivista «il verri» nasceva da quell’humus e dall’impulso dei giovani intorno ad Anceschi di restituire alla letteratura la sua dimensione di “sapere” culturale, capace di dialogare e porsi in relazione paritaria con tutti gli altri saperi e linguaggi della contemporaneità. Lo ricorda il Discorso generale nel nr 1 della prima serie (autunno 1956-dicembre 1961), quella a cui lavorerà anche Pontiggia con un ruolo determinante, documentato dal suo Archivio, ora alla BEIC di Milano. È questo il terzo lascito: la letteratura come crogiuolo di saperi, come vaglio dell’esperienza umana nella sua globalità. Di quei giovani cólti (specie Nanni Balestrini, Pontiggia stesso e Antonio Porta), il più teoreticamente dotato, il più determinato a investigare seriamente discipline molteplici – filosofia, psicanalisi, scienze esatte, linguistica o antropologia – era proprio Pontiggia, che accumulò, non a caso, una biblioteca di oltre trentamila volumi.
Quarto suo lascito, infine, è l’idea della tecnica come processo-padronanza degli arnesi del mestiere letterario e come invenzione: insieme di strumenti a cui attingere a seconda dei bisogni della scrittura; coscienza culturale che permette all’autore di liberare le proprie doti creative. Tecnica come ampio campo di prassi e di significati culturali sedimentati nella storia, non come riproduzione e standardizzazione di un metodo artigianale: IL METODO tout court. Da ciò l’importanza che Pontiggia attribuisce alla paideia, alla educazione dello scrittore e dell’essere umano in generale nel farsi dell’esperienza: formazione di altri e autoformazione, presa di coscienza di sé come già nel romanzo breve di esordio La morte in banca (1959).
I suoi famosi e pionieristici corsi di scrittura iniziati negli anni 80 non proponevano modelli, bensì insegnavano a leggere, a meditare sulla parola e le sue combinazioni possibili per essere efficaci. Per costruire sempre nel principio della scelta e della libertà: di quanto sentiamo come la nostra e sola verità.