ItaliaOggi, 24 giugno 2023
Orsi & tori
Fra il responsabile della sicurezza degli Usa, Jake Sullivan, e il segretario al tesoro Janet Yellen, ha vinto la signora che gestisce l’economia americana. Di fronte alle parole di Sullivan, che ipotizzava un mondo non dalle linee chiare e semplici come il Partenone, ma una architettura del mondo alla Frank Gehry, cioè variegata e frastagliata, la Yellen aveva detto: «L’America sta invocando lo stesso ordine internazionale che ha reso possibile la trasformazione economica della Cina con la diplomazia del ping pong di Henry Kissinger e Richard Nixon».
La vittoria della Yellen all’interno del governo americano è sancita dal viaggio a Pechino del segretario di stato, cioè ministro degli esteri, Antony Blinken che ha avuto colloqui con l’attuale ministro degli esteri cinese, Oin Gang, con il capo della politica estera del partito, il brillante ed elegante Wang Yi, che non ha spinto per una rottura ma ha certo registrato tutti gli atti ostili compiuti verso la Cina.
Mentre, superando la prassi che evita incontri fra non pari grado, ha avuto il colloquio finale di 35 minuti con il presidente Xi Jinping; ha invitato a nome del presidente Biden a Washington il ministro degli esteri cinese Oin Gang, che ha accettato. E ha riconfermato che, sia pure senza data, il presidente Biden mantiene l’impegno di recarsi a Pechino. Il viaggio e l’invito sono serviti anche a ribadire che non sono state cancellate di colpo le idee folli di guerra commerciale (e non solo) verso la Cina, lanciate da Donald Trump e in parte riprese per ragioni elettorali dal presidente Joe Biden, ma nonostante ciò il dialogo è ripartito. E se Biden in una riunione di raccolta fondi elettorali mercoledì 21 giugno si era lasciato scappare qualche parola di troppo sul «dittatore Xi», ha subito fatto seguire parole di soddisfazione generale del governo americano per questa ripresa di dialogo, con la Cina che con i suoi 1,5 miliardi di abitanti è il più grande mercato del mondo. E in realtà, in privato, il presidente Biden è andato oltre, perché ha fatto sapere che se fosse stato per lui all’incidente del pallone cinese arrivato nel cielo americano e abbattuto come strumento di spionaggio, non gli avrebbe dato molto peso: «Xi non era informato del pallone e per un dittatore è davvero grave e deludente non sapere tutto». Insomma, Biden è andato sul tono dell’ironia e può essere comprensibile, essendo in una riunione per ricevere contributi per la prossima campagna elettorale, ammesso che sia lui a farla per il partito democratico. Insomma, un clima più disteso come auspicava la Yellen, giustamente preoccupata per il grande debito americano, posseduto in misura non indifferente proprio dalla Cina.
Vuol dire allora che anche l’Italia e l’Europa potranno tranquillamente proseguire e sviluppare i rapporti commerciali e di collaborazione con la Cina?
Non proprio, perché la globalizzazione non c’è più e anche Emmanuel Macron, che è sempre stato il capo di stato più deciso a sostenere che la Ue debba avere un’indipendenza dall’America per le sue scelte, ha già annunciato chiaro e tondo che la Francia vuole una tassa speciale europea sulle auto elettriche cinesi, mentre la Germania è assolutamente contraria. E naturalmente, è inevitabile, la Cina nel caso farebbe altrettanto su prodotti rappresentativi dell’economia francese o europea, se l’idea di Macron non cambierà.
Ma non è tutto: anche Romano Prodi, che come presidente dell’Iri aiutò non poco la Cina e che ha anche insegnato in Cina e che della Cina ha sempre parlato bene, ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera che dal Memorandum della Via della seta (l’accordo più importante fra Italia e Cina), l’economia italiana «non ha ricevuto benefici». Quindi l’ex-presidente del Consiglio, che insieme al ministro del tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, fece di tutto e anche di troppo (le privatizzazioni affrettate e con il concetto del nocciolo duro alla francese, inattuabile in Italia) per entrare subito nell’euro, è oggi della Cina, se non un deciso critico, non più un fautore dei benefici di essere l’Italia l’unico paese del mondo occidentale a partecipare al grande progetto di Xi.
La pensa in maniera assolutamente opposta, il che è ovvio, la Cina. Come è stato possibile leggere nell’intervista pubblicata da MilanoFinanza al nuovo ambasciatore cinese a Roma, Jia Guide: «Da quando l’Italia ha firmato il Memorandum sulla Via della Seta, l’interscambio fra i due Paesi è cresciuto del 42%» e ha aggiunto, sia pure con tono pacato, senza accordo la crescita in futuro non potrà essere pari. Non una minaccia ma una chiara indicazione.
In realtà, come MilanoFinanza ha precisato, è vero che l’interscambio è cresciuto molto, ma l’export italiano è sempre nettamente inferiore a quello cinese verso l’Italia. Spiegazione cinese: nel nostro export c’è una fetta importante di materie prime; di cui, occorre dire, l’Italia ha bisogno.
Non sarà quindi agevole il compito della presidente Giorgia Meloni quando, entro fine anno, andrà a Pechino come ha annunciato. Soprattutto perché, come dimostra il no della Germania alla richiesta di Macron di porre significativa tassazione sull’import delle auto elettriche cinesi, la Ue non ha un atteggiamento univoco verso i rapporti commerciali con la Cina. E il no della Germania alla proposta di Macron ha una spiegazione molto semplice: 1) durante gli anni di governo di Angela Merkel dalla Germania sono partiti in continuazione Jumbo carichi di imprenditori e il giro d’affari sino-tedesco, 298 miliardi di euro, è il più alto al mondo; 2) nel caso specifico delle auto, elettriche o meno, i brand tedeschi hanno una fortissima posizione di mercato, oltre al fatto che la Volkswagen ha in Cina una jv che produce il suo Suv elettrico e anche la Daimler ha stabilimenti in Cina, con un mercato totale per le auto tedesche in Cina, incluso BMW, che rappresenta il 30% del totale. Mentre Adidas, Basf, e Siemens realizzano in Cina fra il 22 e il 15% del totale. Senza contare, dal lato americano, che c’è poi la Tesla che ha a Shanghai una nuova fabbrica per produrre 10 mila Megapack all’anno.
Non a caso proprio nei giorni in cui Blinken era a Pechino, c’è stata la prima visita all’estero del nuovo primo ministro cinese, Li Qiang e naturalmente è avvenuta in Germania, dove verdi e liberali hanno ricordato le decisioni dell’ultimo G7 e in particolare l’obiettivo del de-risking, considerando la Cina un partner sempre più concorrente e rivale. Ma il cancelliere Olaf Scholz si era già pronunciato a favore della Cina con il no secco alla richiesta di Macron di una tassa speciale per le auto elettriche cinesi destinate a entrare in Europa. E il primo ministro Li lo ha di fatto ringraziato assicurando che «la Cina è pronta a collaborare con la Germania per svolgere un ruolo costruttivo nella stabilità e prosperità globale e per fornire maggiore certezza in un mondo turbolento». Belle parole, che quando ci sono interessi economici così cospicui come quelli esistenti fra chi è reciprocamente il maggior partner economico al mondo, non potranno generare cambiamenti di rotta. Quindi sarà molto arduo che nella Ue ci sia una convergenza fra i vari paesi su come trattare con la Cina. E in più, specificatamente nel settore automobilistico, che ci possa essere una posizione univoca Ue-Stati Uniti. Del resto, poi, la stragrande maggioranza degli iPhone di Apple continuano a essere prodotti in Cina nonostante l’annuncio di produzione anche in Vietnam e in India, dove paradossalmente, i costi di produzione possono essere oggi inferiori visto il livello raggiunto dalla Cina, dove un giovane cinese su cinque, nelle aree urbane, sembra essere senza lavoro. E per loro non basterà, come in passato, il difficilissimo esame di ammissione alle università, che in passato garantiva alla fine dei corsi il posto di lavoro.
Tutto ciò spiega la crescente apertura degli Usa all’India, sancita pro proprio in questi giorni di viaggi in Cina di Blinken, di Li in Germania, e del primo ministro indiano Narendra Modi, a cui il presidente Biden ha steso per l’arrivo a Washington più di un tappeto rosso. L’obiettivo degli Usa è di far diventare l’India il grande alleato in Asia per contenere la Cina e contrastare la Russia. In passato la simpatia, diciamo così, degli Usa verso l’India non è mai stata altissima, anche perché la stessa India sapeva e sa bene di essere vicina a superare per abitanti la Cina e grazie anche a un’altissima classe di informatici ha le possibilità, nonostante la povertà diffusa, di recitare un ruolo non subalterno. In altre parole, avendo osservato la parabola delle relazioni Usa verso la Cina, non vuole trovarsi nella medesima situazione di oggi.
È all’interno di questa realtà sempre più complessa di relazioni fra la Cina e l’Occidente, con il gioco Usa di cercare di catturare la fedeltà dell’India, e di evoluzioni economiche anche in Cina per certi versi simili a quelle del mondo occidentale, che la presidente Meloni dovrà dare il meglio di sé quando si recherà a Pechino. Le sue parole al momento dell’annuncio del viaggio a Pechino prima della scadenza del Memorandum della Via della seta a fine anno, sono state equilibrate e intelligenti, affermando che c’era tempo per riflettere e che i rapporti di collaborazione con la Cina possono essere di vario tipo e comunque sempre di collaborazione e sviluppo. Paradossalmente, sarà proprio il viaggio della presidente Meloni e la decisione se rinnovare il Memorandum o trovare altri accordi di collaborazione da firmare, a segnare la rotta anche per il resto della Ue. Ma la Meloni non dimenticherà sicuramente che il paese più importante della Ue, la Germania, anche al solo annuncio di Macron sull’elaborare una tassa europea per le auto elettriche cinesi, ha risposto con un secco no. È la conferma che, pur facendo parte della Ue, ogni paese tira l’acqua al suo mulino. La presidente Meloni lo sa bene e quindi riuscirà a fare in modo che i vantaggi (pochi ma che possono crescere) dell’Italia verso la Cina non vengano a cadere. Per fortuna c’è stato il test Pirelli, in cui al momento la Cina conferma di volere il dialogo e non ci sarà stata ancora l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti e quindi la Meloni potrà tener conto di un contesto in cui le relazioni fra Usa e Cina sono riprese e quindi agire in modo da realizzare il miglior interesse per l’Italia.
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Su tutt’altro piano ma ugualmente connesso all’interesse dell’Italia nella Ue si colloca l’ennesimo caso di una azienda (una grande azienda) italiana, la Brembo sposta la sede legale dall’Italia e si trasferisce ad Amsterdam. Per il diritto commerciale olandese che consente diritti di voto plurimo e maggiorato su cui solo ora si sta discutendo in Parlamento per una loro adozione anche in Italia, con il ddl Capitali del governo. Per ora Brembo ha dichiarato di non mantenere sia la quotazione in borsa sia la residenza fiscale in Italia. Ma fino a quando non saranno colmati questi gap del diritto, dei regolamenti e del fisco, permarrà la finzione di una borsa europea, Euronext, che si descrive come «la borsa paneuropea per connettere le economie europee al mercato globale dei capitali, per accelerare l’innovazione e lo sviluppo della sostenibilità». No, questa è una pseudo borsa europea che favorisce due mercati, in assoluto Amsterdam, che da sempre con un diritto commerciale e fiscale ipercompetitivo, attrae, sottraendoli alle entrate dei relativi Stati di origine, i maggiori gruppi europei; e Parigi, che ha avuto il vantaggio di ideare Euronext e di averne di fatto la gestione.
In questo contesto, delle due l’una: o la Ue impedisce ad Amsterdam un diritto commerciale e regime fiscale di enorme vantaggio rispetto a tutti quelli degli altri paesi, o anche gli altri paesi si adeguano e imitano le norme olandesi. In tutti e due i casi operazione utopistica. Ma una iniziativa va presa. È in corso di esame il decreto Capitali? Certamente ci sono alcuni passi avanti, ma sono piccoli. Non può essere l’Italia il paese con il più alto risparmio al mondo dopo il Giappone e il 75% del risparmio italiano va a finanziare le economie estere. Almeno il grande risparmio giapponese finanzia quasi interamente il debito pubblico del paese, eliminando così il rischio paese. Ma per tutte dovrebbero vale le chiarissime e profonde parole del presidente della Consob, Paolo Savona, nella audizione per il decreto Capitali: «La crescita di una economia, quindi anche, e in primo luogo, quella italiana, ha bisogno, per una strategia di sviluppo a medio e lungo termine, di un mercato dei capitali efficiente e di dimensioni adeguate, che riesca a fornire risorse finanziarie «pazienti» e interessate ai risultati industriali di lungo e medio periodo».
Vi pare che Euronext, che non usa neppure per il listino delle pmi Egm la grafia italiana per Milano (che viene scritto Milan, come fosse la squadra di calcio), nella esasperata competitività di diritto e fiscale, di Amsterdam, possa realizzare i lucidi obbiettivi pronunciati dal presidente Savona? L’Italia non può rassegnarsi, com’è il disegno di Euronext, a una borsa per le pmi; vorrebbe dire essere un paese di serie b o c. Quindi, merito al governo Meloni e in particolare al ministro Giancarlo Giorgetti e al sottosegretario Federico Freni, di fare molti sforzi con il decreto Capitali all’esame del parlamento, ma come terza economia della Ue, Milano deve avere una borsa che conserva all’interno dell’Italia le non moltissime grandi società italiane, che costituiscono l’ossatura fondamentale per la raccolta del risparmio. Da quando è nato Euronext sono 53 le società che hanno lasciato il listino di Milano e molte sono andate ad Amsterdam.