il Giornale, 24 giugno 2023
Intervista a Dante Ferretti
Questa è una storia che ha rischiato di non cominciare neppure. Dante Ferretti, 80 anni e tre Oscar oltre a infiniti altri riconoscimenti, è nato in un inverno di guerra. Di lì a un pugno di mesi un bombardamento degli alleati, alla vigilia di Pasqua, sbagliò mira e centrò il suo palazzo. Il corpicino di quel bambino fu estratto dalle macerie a fatica. Ma vivo. Gli americani che di lì a svariati decenni lo avrebbero accolto come uno di loro, coprendolo di gloria cinematografica, nel ’44 riuscirono quasi a ucciderlo. Vinse la vita. E quel marchigiano che si è allontanato da casa per poi tornarvi sempre, una volta diventato grande ha scoperto che la sua vocazione era costruire sogni. Lo ha fatto talmente bene da portarsi a casa tre Oscar per la Scenografia di The Aviator, Sweeney Todd e Hugo Cabret. E ieri alla Mostra del cinema di Pesaro ha presentato la sua autobiografia Immaginare prima (Jimenez, pagg. 270, euro 22) scritta con David Miliozzi.
Tutto vero, Maestro
«Macché, tutto finto. Io sono votato alla bugia. Si figuri».
Qualcosa di vero ci sarà.
«Le fandonie. Tutte quelle che ho raccontato a mio padre per andare al cinema di nascosto, invece di studiare».
Non proprio un allievo modello, insomma.
«Ogni estate ero rimandato a ottobre».
L’incubo a scuola?
«Ginnastica».
Come ginnastica. Nessuno ha mai avuto insufficienze in quella materia.
«Io sì. Odiavo saltare, non ne ero capace. Alla maturità me la cavai con un misero 6».
Un successo scolastico sicuro, quindi.
«Dovevo centrare il traguardo. Quando chiesi a mio padre di mandarmi a Roma all’Accademia dell’arte mi rise in faccia. Non potevo sbagliare. Fallire significava perdere l’avvenire che volevo».
E infatti non sbagliò.
«Ricordo ancora le facce di compagni e bidelli quando andai a vedere i cartelloni. Nessuno ci credeva. Mi vedevano sempre al cinema».
Quanti film vedeva, allora?
«Tantissimi, fino a tre in un pomeriggio. Uscito da una sala entravo nell’altra. Ricordo I ragazzi della via Pal, La rosa tatuata».
Oggi qual è l’ultimo visto?
«E chi se lo ricorda».
Come, non va al cinema?
«Ormai nessuno ci va più. Posso dirle l’ultimo che ho fatto. S’intitola Verona ed è un kolossal americano su Giulietta e Romeo».
Quello in cui doveva esserci Brad Pitt?
«Ma poi non se n’è fatto nulla. Al regista Timothy Scott Bogart che ha girato a Castell’Arquato sono rimasti la cheerleader Rebel Wilson, Jason Isaacs e Rupert Everett».
L’America è a casa nostra, insomma. Verrebbe da chiederle se è meglio il cinema hollywoodiano o quello italiano.
«L’importante è che sia bello».
Fin qui tutto vero
«Certo che no. Simpatiche balle».
Scusi, ma che cos’è, per lei, la bugia?
«Un altro modo di dire la verità».
Mi sono perso. Se la bugia non corrisponde al vero
«Diciamo che è una maniera simpatica per dire quello che si pensa veramente. Una chiave buffa. In fondo, chi ci crede più alle cose serie dette in modo veritiero».
E alle falsità?
«Oh, a quelle credono tutti».
Lei ha fatto sei film con Fellini che si definisce il gran bugiardo per antonomasia. Come vi intendevate se tutti e due dicevate il falso?
«Benissimo. Conoscevamo i confini dei nostri pensieri, dove finiva la realtà e iniziava - per così dire - il sogno. O la provocazione».
Lei ha lavorato con un’infinità di registi. Preferiti?
«Tra gli italiani Fellini e Pasolini. Tra gli stranieri Scorsese. Lì i miei ricordi più belli».
Tre Oscar li ha vinti lei e altrettanti sua moglie Francesca Lo Schiavo. Dov’è allestito il mausoleo?
«Su una mensola dell’Ikea».
Roma o Los Angeles?
«Roma. Nella casa che fu di Federico. L’ho comprata da lui».
Ma lei non è anche mezzo americano, dopo tanti anni di lavoro là?
«Sì ma a me mica piace. L’America».