il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2023
Manganelli critico d’arte
Chi frequenta Giorgio Manganelli ne conosce una frase – anche se le sue, più che frasi, sono tagliole logiche, brocardi, statuizioni, oppure ambigui giocherelli – di deliziosa autoironia: “I veri erotomani vanno a vedere le icone bulgare, e i dementi del sesso contemplano le fotografie di Tolstoj nella sua casa di campagna”. Oggi, agli sfrigolii dei ghiacci del nord, agli esperimenti con l’India, agli improvvisi per macchina da scrivere e a tutte le altre concupiscenze letterarie, tiranniche e dichiaratamente menzognere di Giorgio Manganelli, Adelphi aggiunge i suoi scritti sull’arte, comprese le icone (bulgare e non): Emigrazioni oniriche. Scritti sulle arti (a cura di Andrea Cortellessa), un reportage esteso negli anni dal regno dei fantasmi del cosiddetto “visuale”, che per Manganelli è, principalmente, ciò che non è visibile.
Da atleta del limite quale egli è, da “erotomane e demente”, non può non bramare la “follia taciturna e ragionevole” dei musei, per quanto ne diffidi sornionamente: “Racchiudere tutti i quadri in un palazzo non è più sensato che fare abitare tutti i Giuseppe in un solo quartiere di una città”. Lo attrae e lo repelle l’industria delle esposizioni, che fa di ogni museo un “lager di squisitezze”, degli Uffizi un “delicato leviatano” in cui sono concentrate “quelle cose ambigue e un poco sinistre che sono i capolavori” e della stessa Firenze una “città che dà un po’ sul falso per conto suo, pizzerie e Battistero”.
Ogni museo è una collezione su larga scala, perciò è il regno del feticismo, ossia dell’unione di morte ed erotismo. Il piccolo oggetto, la scheggia, ha la stessa dignità del capolavoro; così può discorrere a lungo delle mascotte per automobili o occuparsi di poveri ex voto con lo stesso trasporto che riserva alla Santa Teresa del Bernini. Ogni collezionista setaccia il mondo per rapirne uno spicchio e relegarlo in una clausura arbitraria, senza mai prevedere di liberarlo se non dalla sua utilità. Ogni museo “nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode”.
Come già in merito ad Ascoli Piceno (Esiste Ascoli Piceno?, Adelphi), Manganelli nutre “dubbiose fantasie” sulle opere d’arte e sui concetti di autenticità e di copia: “Siamo sicuri che sia esistito un pittore di nome Van Gogh, e che abbia dipinto proprio quei quadri?”. Potrebbe essere l’invenzione di una “cooperativa di falsari”, o la commissione a “sicari” da parte della “macchina dei mercati d’arte”. A ogni modo, per lui Van Gogh non è il pittore dei girasoli; è il pittore delle patate: “Che cosa sono nell’universo ustionato di Van Gogh? Potrebbe essere il cibo degli umili, come suggerisce una pia glossa della scheda… Non credeteci”. Le patate “sono tuberi ctonii, frutti che si nutrono di lunghe tenebre… allevati nel luogo della sepoltura. Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità”.
La contiguità dell’oggetto artistico con la morte è il leit motiv di queste operette morali, come già della tanatocentrica sua Hilarotragoedia. Uno degli scritti più perturbanti della raccolta è “La bellezza e l’orrore”, saggio su Medusa di incantevole e spaventosa perfezione, scritto per Epoca nel 1987: “Non possiamo vivere senza Medusa… Essa è la bellezza e l’orrore, la disperazione di ciò che non possiamo conseguire e che tuttavia riconosciamo come unico; è dolore, un dolore per cui non esiste, non esisterà mai consolazione; è un desiderio che non vuole consumarsi, giacché è innamorato del proprio desiderare”. Molto lo ha impressionato il libro di Roland Barthes sulla fotografia: da allora ogni soggetto ritratto gli sembra avere “una tresca con la morte” e il potere di “chiuderci nella orribile fortezza del futuro per vedere il defluire, lo scomparire di ciò che vive”.
Si interessa ai sassi, alle pietre che sembrano partorirsi da sé e contenere una divinità in fasce, o un abbozzo di umano; in fondo, lo scheletro non è se non la nostra “pietra interiore”; e parimenti alle mummie, “volti greculi, volti romani, volti bizantini” che “si offersero alla manipolazione sacra degli imbalsamatori, in cerca di eternità, chiedendo agli dèi egizi di eseguire su di loro il gesto della suprema incancellabile metamorfosi”.
È commosso da un quadro minore degli Uffizi, di pittore anonimo del XV sec., che ritrae San Benedetto fanciullo che risana un coccio, perché in esso è chiaro che “il nume, la potenza, colui che regge l’universo, può venir commosso e chiamato da un fanciullo”, e tutto ciò che “ha patito una frattura” chiama a sé il prodigio (il sogno di “ricomporre l’infranto” di Walter Benjamin), laddove “il sacro invade ogni cosa, tutto è ininterrottamente coinvolto nel colloquio con la creazione”.
Quella di Manganelli non è tanatofilia (un anno prima di morire, scrive un ricordo del pittore Gastone Novelli che è un grido contro la morte): se nei musei appare chiaro che “noi, i riguardanti, siamo effimeri e precari” mentre “il vero popolo del museo è fatto dai quadri, dalle statue, dagli arazzi mentitamente taciturni”, tuttavia “dove c’è la forma, l’immagine, la morte non potrà transitare”.