Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 24 Sabato calendario

Metoo della pubblicità, il repulisti può attendere

Consigli straordinari, dipendenti chiamati a rapporto, discussioni tese tra manager di varie agenzie, decisioni comuni su linee da concordare e molta paura di quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni. Il mondo della pubblicità sta attraversando uno dei suoi momenti più bui, dopo che dipendenti ed ex dipendenti di varie agenzie hanno iniziato a raccontare episodi di molestie e violenze. Il caso più eclatante al momento è quello di We are social di cui Il Fatto si è occupato in questi giorni. L’ormai tristemente famosa chat dei dipendenti maschi ha avuto come primo effetto l’auto-sospensione dell’agenzia e l’annuncio di una sorta di indagine affidata a un misterioso ente terzo. Ieri, poi, i tre fondatori di We are social (Nava, Cucinella, Maggi), seguendo una linea concordata, hanno iniziato a difendersi dalle accuse e a cercare di ripulire l’immagine compromessa dell’agenzia. Hanno rilasciato alcune interviste affermando con fermezza di non aver mai saputo nulla di quella chat prima della denuncia di alcune dipendenti e di aver sottovalutato la storia. Hanno poi chiesto scusa, garantendo l’intenzione di scoprire la verità. Insomma, prima archiviano la faccenda in fretta e furia senza accertare alcuna responsabilità, poi – quando scoppia lo scandalo – vogliono individuare le responsabilità.
Magari di persone che non lavorano più lì o di persone che nel frattempo hanno promosso. Un adv washing niente male. Secondo fonti interne però, la situazione in We are social è caotica. Il board internazionale pretende che saltino delle teste e, per ora, la richiesta dei vertici italiani è quella di una sorta di coming out in agenzia, ovvero: fatevi avanti, ammettete le vostre colpe e vi mandiamo a casa con una buona liquidazione. Al momento sembra che non ci siano esattamente valanghe umane di dipendenti che premono sulla porta dei capi per auto-fustigarsi. Le uniche dimissioni spontanee dall’agenzia sono quelle delle aziende che lavoravano con We are social, in particolare Netflix, Ita e Campari, che avrebbero deciso di sospendere ogni collaborazione. Ieri poi, alcuni dipendenti assunti in agenzia dopo che la famosa chat era stata già chiusa hanno concordato una sorta di Instagram bombing, ovvero hanno pubblicato delle storie raccontando quanto le accuse sul presunto ambiente maschilista siano false e quanto sia invece idilliaco il clima della grande “famiglia” di We are social. C’è anche chi ha insinuato che le accuse delle ex dipendenti siano “ripicche” e “risentimento per la mancata realizzazione professionale”, insomma, andrà a finire che le accusatrici sono pure un po’ isteriche e nella famosa chat si scambiavano sonetti di Shakespeare. Intanto, in un’altra famosa agenzia internazionale si respira un clima di grande paura perché, secondo la testimonianza di alcuni ex dipendenti, una chat molto simile a quella di We are social esisteva anche lì, almeno fino al 2019. E anche in quel caso la faccenda fu gestita con grande superficialità. Nell’ambiente non si parla d’altro ma, naturalmente, il sistema difende se stesso. A Cannes, dove si sta svolgendo il Festival internazionale della creatività, il clima non è quello gaudente degli anni precedenti: aperitivi che somigliano più a riunioni carbonare, musi lunghi e alcuni pezzi grossi che sono più defilati del solito, stranamente assenti da cene e feste. In particolare, in una delle più prestigiose agenzie, c’è molta agitazione per via di testimonianze di ragazze su molestie e umiliazioni pubbliche che convergono su uno dei soci. Non sono ancora uscite allo scoperto, ma nell’ambiente non sono un segreto. “Hanno paura che scoppi la bomba da un momento all’altro, ma sono potenti e contano sul fatto che quel nome sia troppo grosso perché venga fuori, finché si fa quello del pesce piccolo le ripercussioni su questo mondo sono relative…”, mi dice uno dei più importanti pubblicitari italiani. Il pesce piccolo a cui si fa riferimento è P.D., il creativo accusato dal pubblicitario Massimo Guastini e da alcune donne di molestie sessuali. Intanto, ieri, Una (Azienda delle comunicazioni unite) ha indetto una riunione territoriale in Lombardia col direttore generale Stefano Del Frate. Dopo aver parlato di questioni relative al nuovo hub, si è affrontato il tema “Metoo della pubblicità” e, con grande sconcerto di alcuni dei presenti, i toni della discussione sono stati amari, ma non tanto per la gravità delle accuse di molestie, bensì per l’imbarazzo che i pubblicitari presenti al Festival di Cannes sono costretti a sopportare. “Del Frate si è detto dispiaciuto perché alcuni dei vincitori, poverini, si trovano a rispondere a domande sulle denunce di molestie anziché sui Leoni vinti”, mi rivela un uomo che era presente alla riunione. “Non solo, Del Frate ci ha tenuto a sottolineare che questi problemi sono diffusi in ogni settore, certo non solo in quello della pubblicità, e che si augura che non ci siano derive assurde come in America, dove ormai gli uomini non possono più salire in ascensore con le donne”, aggiunge il testimone, precisando che il presidente è stato appoggiato anche da alcune donne presenti, secondo le quali “ormai si rischia di non poter fare più un complimento a una donna”.
Alcuni dei presenti avrebbero invece (per fortuna) ribadito la serietà del problema sollevato inizialmente da Tania Loschi, la copywriter che raccoglie da settimane le testimonianze anonime di dipendenti ed ex dipendenti nel mondo della pubblicità. E dall’ex presidente dell’Art Directors Club italiano Massimo Guastini che, come dicevamo all’inizio, ha rotto per primo il muro dell’omertà facendo nomi e cognomi in un’intervista rilasciata a Monica Rossi (pseudonimo di un uomo che si occupa principalmente di editoria). Il che è interessante, perché forse per la prima volta si stanno muovendo alcuni uomini e un gruppo compatto di donne su un fronte comune: quello di denunciare non il singolo caso, ma il problema sistemico all’interno di un ambiente, quello della pubblicità, in cui ci sono senz’altro delle specifiche responsabilità da accertare, ma sicuramente un clima tossico diffuso. E fin qui abbiamo parlato di molestie. Ma non va dimenticato che prima dell’attuale filone #metoo, a novembre era nato un altro filone (presto insabbiato) avviato dal profilo Instagram “Gentilissima rivolta” in cui decine e decine di testimoni anonimi raccontavano sfruttamento del lavoro, mobbing, abusi psicologici e atteggiamenti maltrattanti nel mondo delle agenzie pubblicitarie. Il tutto era stato poi archiviato velocemente pare dietro pressioni di nomi grossi nella pubblicità, ma la macchia era rimasta. Nulla però in confronto a quello che sta emergendo in questi ultimi giorni. E forse è meglio che i due filoni restino separati, perché molestie e violenze sessuali non finiscano in quel luogo torbido in cui tutti sono colpevoli di tutto e quindi non è colpevole nessuno.