La Lettura, 24 giugno 2023
Perché gli scrittori ricorrono agli pseudonimi
Perché alcuni scrittori adottano uno pseudonimo per pubblicare i loro libri? Lo usano come maschera o come specchio? E i motivi della scelta di un nom de plume sono cambiati, oggi, al tempo dei social? Si sono occupati della questione gli studenti del Laboratorio di editoria dell’Università Cattolica di Milano, diretto dal docente Roberto Cicala, ricostruendo le vicende personali ed editoriali di 49 autori che si sono serviti di un alias per pubblicare: ne è nato uno dei Quaderni del laboratorio, All’ombra di un nome. Casi editoriali sotto pseudonimo, pubblicato da EduCatt (lo si trova nelle librerie della Cattolica, ma pure online come ebook), in cui ogni studente ha raccontato, in schede accompagnate da brani antologici, la ricerca compiuta intorno a ciascuno degli autori.
Sono stati gli stessi ragazzi, spiega Cicala, a suggerire l’argomento del laboratorio che ha dato vita al libro, segno che il tema è sentito dalla generazione; e hanno anche scelto gli scrittori da studiare, in base alle loro preferenze. Ne è emerso un quadro molto variato dei motivi che spingono al nascondimento, racconta il docente: «Una premessa: facendo insieme con i ragazzi questa ricerca, ho capito che spesso il motivo per cui uno scrittore sceglie uno pseudonimo non è uno solo, ma sono tanti, in sovrapposizione. Intanto, è interessante capire quando si opera questa scelta: alcuni lo fanno all’inizio della carriera, altri quando sono ormai affermati, a fama già raggiunta, per cambiare registro, per slegarsi dalle costrizioni della fama o del genere. Ma ci sono stratificazioni diverse».
Le ragioni principali del nascondimento, continua il docente, sono numerose. «Il superamento di pregiudizi: pensiamo a tutte le romanziere nell’Ottocento, Jane Austen e Emily Brontë tra gli esempi del libro. Oppure, la denuncia di una situazione politica: pensiamo a George Orwell che stigmatizzava il pericolo di un’epoca di regimi. Altro motivo forte è il timore di qualcosa: mi viene in mente l’esempio di Daniel Pennacchioni, che esordisce con un pamphlet antimilitarista (Le service militaire au service de qui?, 1973, inedito in Italia) ma sceglie uno pseudonimo, Daniel Pennac, perché teme di danneggiare la fama del padre, militare in carriera molto noto. O Agatha Christie, che a un certo punto della carriera vuole cimentarsi con un altro genere lontano dal giallo, ma teme che il suo pubblico non si ritrovi, e sceglie lo pseudonimo di Mary Westmacott».
Federica Terragnoli, la studentessa che nel libro si è occupata di Emily Brontë/Ellis Bell, spiega: «Non rientrava nei canoni dell’epoca che una donna scrivesse; ma nel caso di Emily Brontë c’è anche una questione di contenuti: i personaggi sono anche scandalosi, narrano un amore quasi tossico, con un po’ di follia. Una storia intensa, che non si addice a quella che allora si definiva una “donna perbene”». Terragnoli ama Cime tempestose, lo aveva già letto due volte e per il laboratorio lo ha letto di nuovo: «Interessante scoprire come è nato il nome. Tutte e tre le sorelle Brontë avevano uno pseudonimo maschile: Emily diventa Ellis, mantenendo l’iniziale, Charlotte diventa Currer e Anne diventa Acton. I fratelli Bell invece delle sorelle Brontë». E oggi? «Direi che siamo inondati da scrittori – suggerisce Terragnoli – anche se i lettori sono pochi. Quindi si cerca l’originalità, anche perché con i social tutti hanno una voce, magari con un alone di mistero. Pensiamo a Erin Doom: lo svelamento del nome è stato un caso chiacchieratissimo, i social erano invasi dalle immagini della scrittrice svelata».
Nell’Ottocento, ribadisce Elena Villa, che con la sorella Alessia si è occupata di Jane Austen, «non aiutava essere donna e borghese. Esistevano donne scrittrici, ma la condizione non si addiceva a una giovane della buona società». Molto diverso il caso di Maria Antonietta Torriani, alias La Marchesa Colombi, moglie del fondatore del «Corriere della Sera» Eugenio Torelli Viollier e prima firma femminile del quotidiano; di lei si è occupata Alessia Villa: «Solo pochi intimi conoscevano il segreto di Jane Austen. Invece Torriani, che era già nota e scriveva sui giornali, annunciò pubblicamente che si sarebbe servita dello pseudonimo di Marchesa Colombi: una maschera satirica, una presa in giro della società frivola».
Continua Roberto Cicala, spiegando altri motivi individuati dagli studenti, per esempio l’uso dello pseudonimo come celebrazione di un legame letterario o affettivo: «Abbiamo esempi di omaggi familiari, come per Umberto Poli, cioè Umberto Saba, che forse volle rendere omaggio alla balia Peppa Sabaz. Oppure, c’è l’omaggio a un maestro: lo fece Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, alias Pablo Neruda, scegliendo di chiamarsi come il poeta Jan Neruda. E c’è l’inchino di Aron Hector Schmitz alle sue due patrie, da cui nasce Italo Svevo». Ovviamente, ricorda Cicala, esiste anche una motivazione artistica: «Lo scrittore fa arte, e quindi vuole prendersi una licenza artistica anche nel nome. Teniamo conto che esistono casi di assoluta bulimia della scrittura, come nel caso di Georges Simenon, che aveva 27 pseudonimi».
In altri casi si tratta di una sfida, a volte letteraria o editoriale, illustra il docente: «Pensiamo a J. K. Rowling, che decide di abbandonare il suo maghetto e di tentare, con il nome Robert Galbraith, un’altra strada nel thriller: tra parentesi, dopo qualche settimana in cui il libro firmato da Galbraith non funziona in libreria, il nome vero viene rivelato e il successo cresce in modo esponenziale. Oppure, Doris Lessing che prova, e lo fa proprio come una sfida, a pubblicare con il nome di Jane Somers: vuole vedere se un suo libro, pubblicato con un altro nome, ha successo: e vede che pur trattandosi di un testo di valore, il mercato non lo accoglie: la sua sfida diventa quasi una denuncia».
I motivi «puri» si intrecciano però tra loro: «Una delle cose che ho capito conducendo il laboratorio è che non c’è mai una sola motivazione: mi è capitato con Orwell. La vulgata è: Eric Arthur Blair sceglie lo pseudonimo di George Orwell per denunciare la situazione politica del periodo. Ma in verità, studiando le lettere, emerge che Orwell teme che la sua famiglia sia delusa nel caso in cui la sua carriera di scrittore fallisca. Quindi è anche una maschera: questa sovrapposizione mi sembra molto letteraria e anche molto umana».
Jane Austen che pubblica Ragione e sentimento firmandolo «By a Lady» nell’Ottocento borghese; George Orwell che pubblica sotto pseudonimo mentre combatte in Spagna nella Guerra civile (1936-1939). E oggi, in epoca di social network?
Prosegue Cicala: «Si tratta di un fenomeno interessante, perché la dice lunga sulla modalità social dell’editoria, della scrittura e della comunicazione di oggi. Pensiamo a Zerocalcare, che mantiene il suo nickname sui social quando decide di pubblicare i suoi fumetti, o ad altri casi in cui la fama giunge su piattaforme social come Wattpad attraverso uno pseudonimo, poi mantenuto. Lasciando da parte il caso di Elena Ferrante, molti autori che oggi scelgono un alias, come Erin Doom o Kira Shell, a un certo punto in parte si rivelano, forse anche per soddisfazione personale. Comunque: la maschera social è quasi una moda, e una maschera ci dice più cose di un volto, per citare Oscar Wilde. Un cambiamento certo è questo: oggi molte case editrici, soprattutto di romance, leggono meno manoscritti e passano più tempo sulle piattaforme di scrittura».
Edoardo Capelli nel laboratorio ha scelto Zerocalcare, che leggeva fin da piccolo: «Presumo che, per lui, sia una scelta che parte dal fatto di avere iniziato da internet e dai blog, e quindi come vari artisti abbia scelto (e magari per terzi motivi) come firmarsi. Ma nel mondo del fumetto è più abituale utilizzare degli pseudonimi». Ora, riflette Capelli, lo pseudonimo è diventato il manifesto di un messaggio: «Anche se ormai tutti sanno che Zerocalcare è Michele Rech».
Racconta Valeria Pennino, che nel laboratorio si è occupata di Josephine Yole Signorelli, alias Fumettibrutti: «La conoscevo già dai social, e prima ancora su Facebook. Poi l’ho suggerita al professore. In un’intervista, la fumettista spiega l’origine del soprannome, la motivazione artistica dietro al fumetto “brutto” da guardare, ma immediato». Un messaggio artistico che «arriva», evidentemente: «Io mi sono interessata a lei per i temi che tratta, anche crudi: l’autrice è femminista e io da piccola mi sono avvicinata al movimento, trovando che il fumetto fosse un modo facile per veicolare quei contenuti, specie per una ragazzina di 14-15 anni». Perché molti autori usano lo pseudonimo sui social? «Sia per l’immediatezza nel riconoscersi, farsi conoscere e ricordare, sia perché sui social è più facile emergere come personaggio che come “persona tra tante”. Banalmente, ho scoperto il vero nome solo dopo anni: per me era Fumettibrutti, e basta». Jane Austen non poteva usare il suo nome, mentre Yole Signorelli, che può farlo, sceglie uno pseudonimo. Perché? «Si tratta – conclude Pennino – di una rivendicazione artistica, non più di una necessità».
Poi ci sono alcuni scrittori che hanno usato lo pseudonimo come nome di battaglia. Oggi la scelta è forse più estetica? «I casi sono rari – spiega Roberto Cicala – ma abbiamo avuto militanti come bell hooks, l’ultimo caso trattato nel libro (nome d’arte di Gloria Jean Watkins, 1952-2021, ndr): una femminista afroamericana che usa il nome della mamma e della nonna, li scrive rigorosamente in minuscolo e ne fa uno pseudonimo militante. E pensiamo anche a Paul Celan, che traslitterò e usò l’anagramma del cognome, Antschel, di origine ebraica: e lo fece per sopravvivere al nazismo».