Tuttolibri, 24 giugno 2023
Storia dei rituali
«Nessun altro animale ricorre al rito in modo così capillare e compulsivo come l’Homo sapiens», così scrive l’antropologo Dimitris Xygalatas nel suo ricco e affascinante Ritual. Il libro nasce da una ricerca multisituata, durata una ventina di anni in diversi angoli del pianeta, per comprendere il senso dei rituali e forse perché ne abbiamo così bisogno. I riti (e non solo quelli religiosi) sono momenti collettivi, che visualizzano, ricordano certi eventi e ribadiscono e rafforzano il senso di appartenenza alla comunità stessa. Gli umani, infatti, hanno necessità di tradurre in eventi sensorialmente percettibili certi concetti per poterli pensare come reali. I rituali sono dei veri e propri «drammi sociali», in quanto mettono in scena una comunità o un gruppo o meglio l’idea che tale comunità o gruppo hanno di loro stessi.
L’azione rituale si fonda su principi di carattere simbolico, che spingono i membri della comunità a concentrarsi collettivamente e nello stesso istante su problemi o sentimenti ai quali essi attribuiscono una spiccata importanza. In questo senso plasmano la nostra realtà sociale, al punto che sono risultati fondamentali per il nostro processo evolutivo, un dato, questo, riassunto magistralmente nelle parole dell’archeologo tedesco Klaus Schmidt: «prima venne il tempio, poi la città».
Potremmo dire che abbiamo bisogno di questi momenti, per sottolineare certi momenti fondamentali della nostra esistenza, per dare loro un senso.
Il libro attraversa diversi campi del sapere: pur mantenendo un impianto essenzialmente antropologico, compie ampie deviazioni nella storia, nell’archeologia, nelle neuroscienze, fornendo un racconto quanto mai ampio e dettagliato.
I rituali devono essere codificati, presentare una certa ripetitività, che ne affermi la permanenza e la costanza nel tempo. Devono essere stilizzati, non nascono da un impulso momentaneo, al contrario devono ripetersi in forma uguale nel tempo, seguire una certa liturgia. Solo così possono riassumere il sentimento che vogliono esprimere. Anche perché in qualche modo un rito è sempre legato a un mito la cui narrazione è necessariamente immutabile. Rito e mito sono testi simbolici collettivi.I rituali di rappresentazione non sono un’esclusiva delle comunità tradizionali: dai trobriandesi di Malinowski agli sportivi contemporanei, dai woodabe del Niger agli studenti universitari, tutti compiamo gesti rituali. Pensiamo alle retoriche nazionaliste degli stati-nazione, con i loro inni nazionali, le bandiere, le parate militari, che mettono in scena, visivamente, l’immagine del potere o ai vertici dei cosiddetti «grandi del mondo» cosa sono se non rituali di rappresentazione? La politica, lo sviluppo, l’economia e ogni altra ideologia moderna hanno bisogno di rituali e dei loro sacerdoti per essere percepiti come reali.Così nel libro troviamo rituali propiziatori, guerreschi, iniziatici, di accoppiamento, trascendentali, politici, dall’iniziazione dei Masai del Kenya al Natale delle società cristiane, dagli atti propiziatori dei costruttori di piroghe delle isole Trobriand alle tifoserie delle squadre di calcio. In tutte queste manifestazioni riscontriamo il fatto, che sono «opachi» in termini di causa-effetto, non sono direttamente collegati alle azioni intraprese, ma sono evocativi.Nello studiare i rituali per invocare la pioggia presso gli ndembu dello Zambia, Victor Turner, per esempio, arrivò alla conclusione che tali rituali non fondano sul fatto che gli ndembu credano che colui che presiede il rituale possa davvero far cadere la pioggia, ma sul fatto che l’attesa delle precipitazioni in un clima tropicale è un momento drammatico, da cui dipende la sopravvivenza dell’intera comunità. Proprio per questo l’intera comunità deve mettersi in scena, vedersi, contarsi, per sapere che nessuno è solo, ma fa parte di un gruppo, il che aiuta ad allontanare le paure.Nelle società occidentali contemporanee il rituale si è fortemente indebolito e spesso finisce per diventare espressione formale di un passato congelato, talvolta quasi sconosciuto e non più vissuto. Rituali artificiali, poco coinvolgenti, che si caratterizzano più per il loro valore estetico, che per il significato che dovrebbero rappresentare. Spesso, quando il rituale diventa commemorazione, rischia però di oscurare la memoria. Il rapporto tra commemorazione e oblio è reciproco; la minaccia dell’oblio genera la commemorazione e la costruzione di monumenti celebrativi genera l’oblio.
Questo non significa, però, che l’atto rituale sia scomparso: all’attenuazione collettiva, si sostituisce spesso una azione intrapresa da piccoli gruppi, spesso alternativi, i cui membri esprimono e sottolineano il loro senso di appartenenza attraverso forme ritualizzate. Per quanto secolarizzate, tutte le comunità sembrano non potere fare a meno di mettersi in scena e di farlo con un copione stabilito.
I rituali, ci dice Xygalatas, sono essenzialmente «inutili» sul piano pratico, in quanto non hanno alcun impatto sul mondo fisico, tuttavia ci sono effetti innegabili per coloro che vi partecipano e sono fondamentali nel fornire coesione sociale e scopo individuale. «La cerimonia è una parte primordiale della natura umana, quella che ci aiuta a connetterci, trovare un significato e scoprire chi siamo: siamo la specie rituale», scrive l’autore.