Tuttolibri, 24 giugno 2023
Intervista ad Abraham Verghese
Abraham Verghese occupa un posto curioso nel panorama letterario contemporaneo. È un medico che a metà carriera ha deciso di formarsi all’Iowa Writers’ Workshop ed è diventato uno scrittore. Niente di nuovo, si colloca in un filone che ha illustri precedenti (da Céline a Arthur Conan Doyle fino a ?echov, o ai nostrani Carlo Levi e Mario Tobino), ma in un mondo di estrema specializzazione, come quello attuale, riuscire a coniugare due materie apparentemente così distanti con un’attitudine da uomo rinascimentale - distinguendosi peraltro in entrambi i campi - non è cosa comune. È professore e vicepresidente del Dipartimento di Medicina presso la Stanford University Medical School, in California, dove vive. Il suo primo romanzo, La porta delle lacrime (pubblicato da Mondadori nel 2010) è stato per quasi tre anni nella classifica dei best seller del New York Times e si ispirava alla diaspora etiope di cui anche Verghese è stato vittima. Esce ora per Neri Pozza Il patto dell’acqua, una grande saga familiare ambientata in India, molto attesa e anticipata.
Lei è nato in Etiopia, i suoi genitori erano indiani del Kerala, e facevano gli insegnanti. Lei è diventato medico in America. Come è successo che è diventato uno scrittore?
«A metà degli anni ’80, ero uno specialista in malattie infettive in una piccola città del Tennessee e vedevo molti più pazienti con l’HIV di quanto previsto in un’epoca in cui l’AIDS era considerata una malattia urbana. Mi ero imbattuto in una storia dell’America delle piccole città: i giovani uomini lasciavano le loro cittadine per lavoro o studio, ma anche perché gay. Decenni dopo, dopo aver contratto il virus in luoghi come New York o San Francisco, non avendo nessuno che si prendesse cura di loro sono tornati a casa. Ho scritto un articolo scientifico su questa migrazione verso le piccole città. Ma il linguaggio scientifico non riusciva a trasmettere lo strazio del viaggio, né la sua tragicità, né il mio dolore nell’assistere alla tragedia. È stato allora che sono diventato uno scrittore».
Che cosa hanno in comune la medicina e la letteratura?
«Come medici ascoltiamo le storie dei nostri pazienti, pratichiamo un’intensa attività di osservazione. Da tutto questo cerchiamo di ricavare una tesi da dettagli apparentemente scollegati. La sintesi è simile alla scrittura. Anche molti medici, soprattutto della mia generazione, si sono avvicinati alla medicina grazie a un libro che li ha ispirati. Una delle cose più gratificanti che mi sia mai capitata come scrittore è sentirmi dire da studenti universitari o medici che uno dei miei libri li ha portati alla medicina o li ha ispirati».
Molti dei suoi colleghi medici leggono libri "seri", come saggi, biografie, libri di storia. Cosa l’ha portata alla narrativa?
«Parafrasando Albert Camus, credo che la narrativa sia la "menzogna che dice la verità" e se la storia funziona è perché la verità in essa contenuta ha un’ampia risonanza. O per citare Proust in Il tempo ritrovato: "Ogni lettore, mentre legge, è in realtà il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore è solo una sorta di strumento ottico che egli fornisce al lettore affinché questi possa discernere ciò che non avrebbe mai visto in se stesso senza questo libro". Da bambini i genitori ci raccontano storie e, man mano che cresciamo, le storie diventano più sofisticate. È così che impariamo a conoscere il mondo».
Alcune persone credono che leggere narrativa sia una perdita di tempo.
«Le storie sono istruzioni per vivere. Mi stupisce sempre che le persone che si considerano "serie" pensino di poter leggere solo memorie e biografie. Mi piace far notare ai miei amici che leggono solo saggistica che è stato il libro La capanna dello zio Tom a porre fine alla schiavitù in America, perché ha cambiato il sentimento pubblico. Oppure, nel Regno Unito, è stato il libro La cittadella di A.J.Cronin (che era un medico scozzese ndr) a far nascere il Servizio Sanitario Nazionale. In breve, credo che la narrativa abbia un ruolo fondamentale nella nostra vita. Quando non si legge narrativa si perde una dimensione di comprensione della propria vita, ma anche di essere nei panni di altre vite e di trarre vantaggio da quelle esperienze».
Il suo ultimo libro è un resoconto e un ritratto dell’India del secolo scorso. Come è arrivata, la più grande democrazia del mondo, a eleggere Narendra Modi?
«Per me è piuttosto sorprendente come nel nostro mondo postmoderno e tecnologicamente raffinato siamo riusciti a regredire a un tipo di politica e di governo restrittivo, autocratico e dittatoriale. Si potrebbe pensare che le lezioni della storia ci rendano amministratori sempre migliori e facciano evolvere i governi in istituzioni esemplari che si occupano del nostro benessere. Quello che sta accadendo in India non è molto diverso da quello che sta accadendo nel resto del mondo, una tendenza all’autocrazia e alla restrizione della libertà, persino la messa al bando dei libri in alcune parti dell’America. La gente ha dimenticato il rispetto per i diritti umani e si è innamorata di demagoghi che distorcono la verità e alimentano i pregiudizi. Sono ottimista e credo che il pendolo tornerà a oscillare».
Il matrimonio combinato all’inizio del libro è un matrimonio felice; molti non lo sono. Cosa pensa di questa pratica incomprensibile e arcaica per il mondo occidentale?
«Non credo che la pratica del matrimonio combinato sia molto diversa da quella delle app di incontri. In entrambi i casi i genitori o il software cercano fattori di compatibilità. La grande differenza con il matrimonio combinato in India è l’enorme impegno da parte di entrambe le parti; credo che sia molto più importante della sensazione inebriante dell’innamoramento, se l’innamoramento non è seguito dall’impegno diventa quasi privo di significato».
Tutti i suoi personaggi sono brave persone. "Le persone possono non essere buone come i personaggi di Verghese, ma nemmeno cattive come quelle di Philip Roth o Saul Bellow", ha scritto il New York Times. La sofisticazione richiede cinismo?
«Non mi scuso affatto se i miei personaggi tendono a essere brave persone. La maggior parte di noi è composta da brave persone che hanno commesso degli errori; possiamo non accorgercene, ma il più delle volte passiamo la vita a cercare di correggere gli errori più gravi. Vedo un’abbondanza di storie e sceneggiature in cui il modo più semplice per creare un conflitto è avere un personaggio cattivo. I lettori si affezionano così tanto a queste persone "buone" che la loro morte è doppiamente tragica».
Forse perché sono persone comuni, lei racconta l’eroismo della normalità.
«Sembra che i lettori siano particolarmente sensibili alla figura della nonna nella mia storia. Mi sono sempre ispirato a entrambe le mie nonne, che hanno vissuto una vita tranquilla e non sbandierata e quindi il mondo non ha mai saputo quanto fossero eroiche e straordinarie; sono andate avanti in qualche modo nonostante le grandi difficoltà, hanno ispirato i loro figli e sono state amate nella loro comunità. Nel piccolo mondo che occupavano erano eroici. Noi lettori amiamo questo tipo di affermazione».
L’acqua è uno dei temi del millennio. Perché è così importante in questo libro?
«L’acqua influenza il carattere dell’intero Stato del Kerala. In quella stretta striscia di terra costiera 41 fiumi scorrono verso il mare, e lungo il percorso creano stagni, canali, backwaters e laghi. L’acqua è quindi il grande connettore, l’autostrada. Ho sempre pensato che i gesti e la parlata del Kerala siano influenzati da questa vicinanza all’acqua. Ma l’acqua collega anche le persone di un’epoca con quelle di un’altra. Ho questa sensazione quando mi trovo sulla riva di un grande fiume, sia esso il Mississippi o il Pamba: ogni fiume collega il passato al presente, perché è sceso e ha superato molte generazioni. Eppure, come si dice, "non si può entrare due volte nello stesso fiume". È lo stesso fiume, ma sempre nuovo».