La Lettura, 24 giugno 2023
Lingue inventate
Parlando di lingue inventate, si potrebbe paradossalmente partire dal latino. Per tutto il Medioevo, infatti, il latino è stato considerato una lingua artificiale. Così lo definisce Dante nel De vulgari eloquentia, presentandolo come un linguaggio di secondo grado – regolato e convenzionale – contrapposto al volgare, il linguaggio naturale parlato anche dalle persone illetterate (dal popolo, appunto: il volgo).
Il latino come una lingua che si immagina creata a tavolino dai dotti – dai letterati, dai filosofi – per far fronte alla maledizione babelica e al conseguente passaggio dall’unica lingua parlata nell’Eden all’instabile molteplicità delle lingue sulla Terra. Una lingua basata non sull’usus, ma sulla ratio: dunque fondata, a differenza dei volgari, su una solida struttura grammaticale. Di qui l’identificazione durata per secoli tra il latino e la grammatica: per tutto il Medioevo e oltre, quando si diceva grammatica si pensava solo al latino. Di qui, in altri pensatori dell’epoca, una visione ancora più esplicita del latino come lingua artificiale comune nata per permettere agli scienziati provenienti da varie culture di discutere delle leggi di natura, dei costumi degli uomini, del corso degli astri. Una specie di esperanto ante litteram condiviso soprattutto dalla comunità che ruotava intorno agli ambienti universitari.
Anche se è ovvio che l’esperanto – arrivato secoli dopo, verso la fine dell’Ottocento – sarebbe nato in tutt’altra temperie culturale e con obiettivi molto diversi. Ritornando sulla questione nel 1989, il linguista Arrigo Castellani ne sottolineava le potenzialità come lingua comune europea. «Il latino ha unito per secoli gli Europei colti. Ma bisogna tener conto anche d’altri elementi, d’altre tradizioni. L’esperanto ne tiene conto: (…) è una lingua “europea” nel senso più ampio della parola». L’unica soluzione, dal suo punto di vista, in grado di evitare l’«adozione di fatto dell’inglese come seconda lingua comune a tutti gli stati aderenti ai trattati di Roma».
Da parte sua, anche lo scrittore Diego Marani – all’epoca traduttore a Bruxelles per il Consiglio dei ministri dell’Unione Europea – aveva creato nel 1996, sempre come tentativo di contrapposizione allo strapotere dell’inglese (quattordici anni prima della Brexit), una lingua artificiale mista che aveva chiamato Europanto: «Este test is èscrit in der erste overeuropese tongue: the Europanto. Ceci ist eine artificiele languag struktur that est uderstandibile by alle men qui pour le least know very mauvais French or tres bad English».
Un paio d’anni prima, Pasquale Panella – l’autore dei testi degli ultimi album di Lucio Battisti – aveva scritto per Angelo Branduardi Fou de love: «Loviente sangre/ mit you por siempre/ e tu non piense a mme/ T’amo/ più tuo son io/ che de moi/ son perdido e chiedo di me/ a les tue braccia/ a los tus besos / now che sarà de mi». Sul filo della mescidanza, la memoria torna fino al monaco Salvatore del Nome della rosa di Umberto Eco (1980). «Ah ah, ve piase ista negromanzia de Domini Nostri Iesu Christi! Et anco jois m’es dols e plazer m’es dolors… Cave el diabolo! Semper m’aguaita in qualche canto per adentarme le carcagna». Commentava in quelle pagine la voce narrante di Adso: «Una volta pensai che la sua fosse, non la lingua adamica che l’umanità felice aveva parlato, tutti uniti da una sola favella, dalle origini del mondo sino alla Torre di Babele, e nemmeno una delle lingue sorte dopo il funesto evento della loro divisione, ma proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva». Dal Medioevo reale a quello fittizio.
D’altra parte, è un fatto – un fatto naturale, verrebbe da dire – che le lingue inventate funzionano bene soprattutto in contesti artificiali come quelli della letteratura. E non solo nell’esotismo spazio-temporale di mondi fantastici, come nel caso del Signore degli anelli o del Trono di Spade. Basta pensare, limitandosi alla letteratura italiana del secolo scorso, alla potenza espressiva sprigionata dal grammelot del premio Nobel Dario Fo («Gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che è in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto» lo definiva nel suo Manuale minimo dell’attore, 1997). Ma anche alla dimensione «metasemantica» della lingua con cui Fosco Maraini scrisse le sue Fànfole: «Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta» (memorabile in questo caso, l’interpretazione di Gigi Proietti). Qui «le parole non infilano le cose come frecce», spiegava Maraini, «ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni».
Ben altro è l’effetto di straniamento provocato in chi legge dallo pseudo-persiano che il protagonista del Dialogo dei massimi sistemi (un racconto di Tommaso Landolfi del 1937) aveva tanti anni prima appreso da un capitano inglese incontrato in uno dei suoi viaggi e poi usato in una poesia giovanile che ormai non riesce più a decifrare, e comincia «Aga magéra difúra natun gua mesciún / Sánit guggérnis soe-wáli trussán garigúr».
Quando il protagonista scopre che quella lingua non è – come credeva – il persiano e neanche «lo jakuto o una lingua haino o l’ottentotto», ma è appunto una lingua inventata, si rivolge a un dottissimo critico che gli propone questa traduzione: «Anche piangeva della felicità la faccia stanca / Mentre la donna mi raccontava della sua vita».