Robinson, 24 giugno 2023
Biografia di Ottavio Fatica raccontata da lui stesso
Nato a Perugia da una famiglia piccolo borghese, ha lavorato per tutti i grandi editori, da Adelphi a Einaudi. Una passione totale per Céline E una, complementare al suo lavoro, per le arti marziali
È piuttosto raro trovare in egual misura lo slancio vitale verso l’esistenza e il freno che ne rallenta il movimento.
Dissipazione e calcolo, il sì pronunciato in alcune circostanze e il preferirei di no per mettersi al riparo da ogni ingerenza. Una simile predisposizione a contemplare gli opposti la colgo negli atteggiamenti di Ottavio Fatica. Definirlo traduttore sarebbe riduttivo. Ma dopotutto è il mestiere che si è scelto quasi mezzo secolo fa e vi ha aggiunto la poesia in proprio, le consulenze editoriali per Adelphi e gli sprazzi di intelligente saggistica che a volte riversa lungo il cammino. Un piccolo poliedro che rende Ottavio un singolare animale culturale sospettoso degli eccessi normativi, ribelle all’ordine costituito e sufficientemente sofisticato da scrivere un libello,Lost in Translation (edito da Adelphi) dedicato alla traduzione come una privatissima esperienza letteraria che azzera di colpo i noiosissimi manualetti su cosa significa tradurre. Mi incontro con Ottavio e so che il suo divagare è uno stare sulla scena mentale come fosse la scena di un delitto: vanno colti i particolari prima ancora dell’insieme.
Dammi un dettaglio della tua vita.
«Così all’improvviso, direi Céline. Ho iniziato con lui e ora ho tradotto Guerra. Anche Céline era uomo di dettagli.
Ogni grande scrittore lo è. In aggiunta il repellente Ferdinand era iroso, cattivo, in permanente conflitto con il mondo, con una acuta libidine per la scrittura».
Hai iniziato a tradurre a che età?
«Prove generali prima dei 16 anni. Armato di matita, annotavo e traducevo ai margini del libro qualche frase, in genere romanzi, letti in inglese e francese».
Che educazione hai avuto?
«Dal punto di vista degli studi abbastanza tradizionale. Sono nato a Perugia, dove ho vissuto fino a tre anni. Poi i miei si sono trasferiti a Roma. Mio padre aveva un bar, mia madre faceva la sarta. Un fratello più piccolo, con una vita normale».
Lo dici come se tu fossi la pecora nera.
«Beh, ero piuttosto inquieto. Con una vita inventata nei libri. Un po’ per fortuna e un po’ per fiuto credo di aver letto quasi sempre i libri giusti».
Cos’è un libro giusto?
«È un libro che non necessariamente ti cambia la vita. Ma la rende in qualche modo più profonda. Né più bella né più brutta. Certamente interessante. Wim Wenders disse che a salvarlo ci aveva pensato il rock ‘n’roll, a me ha salvato leggere».
Cosa leggevi da ragazzo?
«Una delle prime letture che mi appassionò fuIl Visconte di Bragelonne di Dumas. Avevo 12 anni e lo lessi in originale. Sapevo tutto degli amministratori del Re Sole. Quel romanzo fu una delle prime esperienze che mi avvicinò al mestiere di traduttore».
Per chi hai tradotto?
«Nel periodo in cui lavoravo già per Adelphi, ho tradotto per Theoria, Einaudi, Editori Riuniti. Per questi ultimi curai I narrabondi, un’antologia di scrittori inglesi, vissuti tra la fine del Settecento e la Prima guerra mondiale. Era gente eccentrica, che attraversava, spesso a piedi, la campagna e le città inglesi. Maniaci del movimento. Il libro piacque molto a Giorgio Manganelli, che cominciò a volermi bene».
Hai avuto dei maestri?
«Elémire Zolla disse che ero un suo allievo perchéritrovava nelle mie traduzioni qualcosa di suo. La verità è che non sono stato allievo di nessuno. Ho fatto tutto sottovoce e da solo. Neanche la scuola è stata una palestra. Si leggevano al più i prevedibili Sartre ed Hemingway».
A parte tradurre hai fatto altro?
«Ho collaborato ai programmi cinematografici per il Filmstudio, con Enzo Ungari e Adriano Aprà. Se nella prima metà degli anni Settanta volevi conoscere film fuori dai circuiti tradizionali, quello era il posto adatto.
Mi fai venire in mente una cosa che non c’entra niente».
Dilla lo stesso.
«Il giorno in cui morì Pasolini ero in sala con Enzo a vedere Singin’ in the Rain. Aprà ci portò la notizia.
Qualcuno si disperò, altri chiesero dettagli. Si entrò in una specie di nube morbosa».
Tu che pensasti?
«Pensai che il poeta aveva firmato col “sangue” la sua opera. Non mi venne in mente niente altro. Solo questo dettaglio lugubre. Non consideravo Pasolini un grande scrittore».
Chi è un grande scrittore?
«I grandi sono pochi, inutile farsi illusioni».
E tra i pochi c’è Céline.
«Oddio, come fai a non ritenerlo tale. Ha uno stile che mangia, anzi divora le viscere».
Cos’hai tradotto di lui?
«Diciamo che è stato il mio banco di prova. A 16 anni tradussi alla buona Ballets sans musique, sans personne, sans rien.E ora a chi lo faccio vedere? Mi chiesi. Riuscii a ottenere un appuntamento con Roberto Calasso.
Invece di ricevermi in casa editrice, volle che lo raggiungessi a casa».
Che impressione avesti dall’incontro?
«All’inizio era molto sospettoso. Ma rimase colpito dal fatto che un temerario giovincello si fosse lanciato su Céline. Aveva una decina di anni più di me e già orientava il catalogo di Adelphi, un po’ sul solco di Bobi Bazlen. Ci incontrammo casualmente a Vienna qualche anno dopo. Ero con la mia compagna di allora che aveva parenti austriaci. Lui entrava in una libreria, io uscivo. Ci fermammo sulla soglia. Era lì per ritirare la collezione Die Fackel, la rivista scritta interamente edita da Karl Kraus. Da quell’opera sterminata uscirono Detti e contraddetti che curò lo stesso Calasso».
Il tuo Céline?
«Tradussi Il dottor Semmelweis, che uscì nel 1975, e oggiGuerre, l’inedito che fu scoperto in Francia un po’ avventurosamente».
Ti stupisce che sia stato in classifica tra i primi dieci libri più venduti?
«Non mi stupisco più di nulla. E poi, perché no? Una volta tanto un libro — così sghembo, crudele, inguardabile per la violenza che esprime e al tempo stesso fornito di una segreta pietà — balza ai primi posti, dovremmo essere contenti, no?».
Ma non sarà mica questo vento che spira a destra?
«Lascerei stare il giochetto destra sinistra. Leggere Céline è come calarsi in un vulcano pronto a eruttare lava. La prima cosa da chiedersi è: ne uscirò vivo?»
E la seconda?
«Non devi chiedere altro. È stato lo scrittore tabù del Novecento. So che quando lo lessi la prima volta volevo scrivere come lui, anzi essere lui. C’è una tale qualità contagiosa nei suoi libri che ti spara il cervello».
Con che cosa hai cominciato?
«Con ilVoyage au bout de la nuit.Ebbi la sensazione che gli scrittori fino a quel momento bazzicati fossero improvvisamente diventati illeggibili. Una sensazione che mi è capitata solo un’altra volta, con Antonin Artaud. Stessa immedesimazione, stessa voce che mi parlava dentro, anzi urlava ai miei nervi, alle mieviscere».
Un buon traduttore deve lasciarsi possedere?
«Deve sbarazzarsi della modesta e piatta conformità al testo. Ma non per entrare con le fanfare nella lingua che affronta, bensì usando discrezione, quasi con una forma di timidezza che lo rende consapevole del proprio ruolo».
In “Lost in Translation” (Adelphi) lo paragoni allo sherpa.
«L’idea mi è venuta pensando al comportamento di Sam, l’amico più fedele di Frodo, nelSignore degli anelli.
Frodo è sfinito, sfiduciato e nel momento in cui devono affrontare la salita del monte Fato, Sam se lo carica sulle spalle, diventa la sua bestia da soma, si accolla la stanchezza e la sofferenza dell’altro. In fondo che cos’è un traduttore se non uno che con spirito di abnegazione attua il sacrificio della sostituzione?».
Hai usato l’espressione “bestia da soma”. Non è un po’ forte?
«Sono convinto che quando si traduce ci si debba spogliare delle qualità intellettuali, in un certo senso regredire allo stato animale».
Per questo parlando di Kipling dici che tradurre è un po’ come inoltrarsi nella giungla?
«Kipling aveva sentito il forte richiamo della natura selvaggia, l’apprendistato di Kim ne è la prova. Ho immaginato la giungla come uno spazio insidioso,iniziatico e al tempo stesso liberatorio, pieno di parole che sembrano dire una cosa ma ne significano un’altra».
È l’istinto a guidare?
«Lo chiamerei lo spirito animale. L’animalità, voglio dire, non è la conseguenza della lingua, ma il motore. La lingua da sola non va da nessuna parte. La lingua ha bisogno del corpo. La mente umana, dice Spinoza, non può fare a meno del corpo».
A proposito di fisicità so che sei un appassionato di arti marziali.
«Hanno rappresentato e continuano ad essere una parte della mia vita».
Una parte di Oriente?
«Niente kitsch. Le arti marziali giunsero in un periodo particolare».
Quando?
«Avevo 27 o 28 anni, mi sembrava di aver toccato il massimo dello sbraco. Con il Bourbon sotto il letto. In quel periodo c’era un tipo, Dan Inosanto, che seppi si era allenato con Bruce Lee. La cosa mi incuriosì perché Dan aveva fatto delle dimostrazioni, proprio a Roma, di Jeet Kune Do. Un suo allievo italiano aprì una palestra che cominciai a frequentare. Sono passati quarant’anni e non ho mai smesso».
Che cos’è il Jeet Kune Do?
«Una specie di evoluzione del Kung Fu. È stato Bruce Lee, prima che diventasse famoso con il cinema, a porre
le basi di quest’arte marziale, basata sulla conoscenza psicologica dell’avversario».
Che significato gli hai attribuito?
«Nessun significato. La parte filosofica non mi interessa. Se pratico, come faccio costantemente, Jeet Kune Do, è perché fisicamente mi sento meglio. Lavoro anche meglio. Dopotutto, mi dispiacerebbe vedere il mio corpo cedere lentamente».
È quasi fatale che accada.
«Vorrei che il mio cedesse di colpo. Invecchiare mi disorienta».
Anche le traduzioni invecchiano.
«Qui puoi metterci rimedio. È chiaro che una traduzione riflette il suo tempo. Se leggi una traduzione degli anni Trenta ti sembra come un film doppiato di quel periodo. C’è un effetto straniante. Forse ridicolo».
Ti accade di ritradurre un testo che hai già tradotto?
«Costantemente torno alle mie traduzioni. C’è un fanciullino in ogni bravo traduttore che non dovrebbe mai morire. Per questo tradurre non è un’arte per tutti».
Hai scritto finché c’è vita c’è qualcosa da tradurre.
«Ho anche aggiunto che finché c’è qualcosa da tradurre c’è la vita. È un gioco reciproco».
A parte sherpa come definiresti il tuo ruolo di traduttore?
«Sono una specie di frontaliere che tutte le mattine attraversa il confine e porta il pane a casa la sera».
Vivi molto di immagini.
«Il cinema, l’arte, il romanzo non possono prescinderne».
Trascuri la poesia?
«Forse perché la pratico».
Hai scritto un paio di libri di poesia. Che poeta sei?
«Dovrebbe dirlo chi legge. Ad ogni modo non sono quello che a 15 anni infiorettava i fogli di slanci poetici».
Rimbaud cominciò giovanissimo.
«Sono anche il risultato di quella grandissima poesia così piena di ferite. Aggiungerei René Daumal e Gilbert-Lecomte, che insieme danno vita al “Grand Jeu”. Artaud, senza il quale non avrei mai scritto versi. E poi i più conclamati moderni: Rilke, Mandel’stam, Yeats, Eliot. Perfino Brecht, che a me sembra un delizioso poeta cinese. Tra gli italiani Rebora e Montale. Ma stiamo parlando di fantasmi novecenteschi.
Meravigliosi e tragici fantasmi».
Si può tradurre la poesia?
«Poesia è tutto ciò che si perde in traduzione, disse Robert Frost. Si traduce poesia attraverso la poesia. Non c’è altra strada. E anche così è un mestiere per aspiranti suicidi. Un’ombra che avvolge e divora. Mi accade di provare per la poesia quello che provo con Céline: la stessa sensazione di una notte bevuta fino in fondo».