Robinson, 24 giugno 2023
Il ritorno dei Pooh. Intervista
«Che ne direste di chiamarvi “Pooh”?» . Se la segretaria della casa discografica Vedette, una ragazza americana di nome Aliki Andris non avesse avuto questa idea, chissà che nome avrebbe oggi la più longeva band italiana (hanno festeggiato i 50 anni di attività nel 2016, oggi sono 57)… «All’inizio si chiamavano Jaguars ma quando nel 1966 sono entrati in studio per incidere il primo 45 giri hanno dovuto cambiare perché c’era già una band romana che si chiamava così, io sono entrato nel gruppo qualche mese dopo», racconta Roby Facchinetti, voce, testi e tastiere. «È lui il membro storico!», dicono Dody Battaglia (chitarra) e Red Canzian (basso). «Io sono un ospite», si schermisce Riccardo Fogli voce e basso dal 1966 al 1973 ritornato definitivamente dal 2023. Nel 2020 è venuto purtroppo a mancare Stefano D’Orazio, batterista e molto altro, entrato nei Pooh nel 1971 in seguito all’uscita di Valerio Negrini che avrebbe continuato non più come musicista ma solo come autore di testi restando noto come “il quinto Pooh”. Anche lui è morto, nel 2013.
«Siamo quattro persone tutte di città diverse», spiega Dodi Battaglia, «io sono quello dei Pooh a Bologna, Roby a Bergamo, Red lo è a Treviso e Stefano lo era a Roma: questo è uno dei motivi della nostra forza, anche musicalmente parlando». Incontrarli significa trovarsi di fronte a un pezzo importante di storia italiana.
Torniamo all’inizio. Perché Pooh?
Roby Facchinetti: «Secondo Aliki i bambini anglosassoni adoravano Winnie the Pooh, un orsetto giallo protagonista di una favola dello scrittore inglese Alan Milne. Ci hanno pensato a lungo insieme al maestro Armando Sciascia, violinista straordinario e creatore della Vedette e alla fine hanno scelto questo nome, che a tutt’oggi non è invecchiato, anche se all’inizio abbiamo avuto dei problemi enormi.
Far pronunciare agli italiani la parola Pooh non era semplice: per bene che ti andava era Pucca, Pocchi, se non addirittura Pus o, peggio ancora, Puh tipo sputo (ride).Poi col tempo hanno cominciato a pronunciarlo giusto».
Che anni erano?
Ro.Fa.:«Noi siamo nati nel ’66, il periodo della grande rivoluzione musicale che ha cambiato il mondo e la vita di tutti. Sono state proprio le band, i Beatles, gli Stones, gli Zeppelin, i Pink Floyd a proporre un modo diverso di vivere la musica ma anche la vita. I giovani, fino ad allora dovevano fare tutto quello che i genitori dicevano, ubbidire e stare zitti. Così hanno trovato un nuovo modo per esprimersi. Siamo capitati a vivere quel momento irripetibile, una vera rivoluzione. E noi sognavamo di fare quel mestiere» .
Come ci siete riusciti?
Dodi Battaglia: «Io vengo da una famiglia di musicisti che mi ha incoraggiato ma credo che ci voglia un po’ di talento, un po’ di fortuna e soprattutto molta caparbietà».
Ro.Fa.:«Io devo ringraziare un nonno che non ho avuto la fortuna di conoscere perché è morto un mese dopo che sono nato. Era molto religioso e dirigeva un coro sinfonico in chiesa. Anche mia madre ascoltava sempre musica classica e operistica.
Ho scoperto quella magia da molto piccolo. Mi emozionavo e avevo tradotto questa cosa dicendo: “Ma la musica allora mi vuole bene!”. A quattro anni mi regalarono un’armonica, a sei feci la prima lezione di solfeggio e poi la fisarmonica, il piano e a 11 anni ho scritto il mio primo brano. Poi ho iniziato a suonare in una serie di gruppi finché una sera allo Sporting Club di Bologna i Pooh, che erano l’attrazione della serata e avevano da poco fatto il primo disco, mi chiesero di suonare con loro».
Red Canzian: «A quell’età non pensi a cosa farai da grande o a dover mantenere una famiglia con la musica. Io pensavo solo a quanto mi piaceva quello che stavo iniziando a fare, a quanto mi affascinava quel mondo. La prima visione è stata Elvis Presley e poi i Beatles. Volevo una chitarra e alla fine mio papà me l’haregalata. Non certo quella che sognavo io rossa, elettrica, ma una chitarra acustica, che però ha fatto il suo dovere. A casa mia si cantava, papà amava molto l’opera e mia mamma comprava i libricini con i testi di Sanremo. Un giorno un bassista di Treviso, oggi avvocato, mi ha chiesto di andare a fare la stagione a Jesolo: lì si suonava tutte le sere da giugno a settembre. Era bellissimo. Il secondo anno c’è stato l’incontro con Battiato, il primo disco a Londra, i Capsicum Red, gruppo prog stimato da quel mondo. E poi sono arrivati loro: un incontro miracoloso, di quelli che la vita ha deciso per te» .
Riccardo Fogli: «In casa mia invece non sapevano cosa fosse il pianoforte ma sono cresciuto con mia mamma che cantava mentre faceva la maglia ascoltando la radio. A scuola però quando si cantava venivo messo in prima fila anche se ero figlio di metalmeccanici. Di solito i figli dei poveri stavano in terza in quarta fila, in prima c’erano quelli più bellini, vestiti meglio, col fiocchettino, i figli dei medici, dei professionisti. Poi alle medie c’era una professoressa di cui ero decisamente innamorato, una donna bellissima: “Riccardino mi fai 4 misure di 4/4?” per me era facilissimo, per gli altri no. Poi entrai in Piaggio, diventai metalmeccanico e lì facevo il postino dentro lafabbrica e canticchiavo sempre finché un giorno mi fermò un signore: “Riccardino ma se ti piace cantare devi far la scuola” “Il conservatorio?” “Ma no”. E mi portò in Vespa dal maestro Santarnecchi di Montecalvoli che mi insegnò una decina di canzoni e la domenica andavo a cantare con lui che aveva un’orchestra di fiati. La scintilla è stata lì, poi ho cominciato a suonare il basso, da Pontedera mi sono trasferito a Piombino dove facevo il gommista. Mi piaceva tanto fare il metalmeccanico, perché c’era una prospettiva futura. Sono sempre stato felice, non mi sono mai preoccupato dello status mio, della mia famiglia. Ci ho fatto anche un libro/cd che si intitola appuntoPredestinato (Metalmeccanico) e sono contento di aver fatto quel mestiere perché le 20 mila che portavo a casa facevano la differenza. Poi al Piper di Milano ho incontrato i Pooh» .
Ma perché poi te ne sei andato?
Ri.Fo.:«Per dei motivi che non racconto (ride)».
D.B.:«Li racconto io» .
Ri.Fo.:«Ti prego fratello, abbiamo cento anni: la verità vera o niente».
D.B.:«Verità vera: Riccardo, come è successo a tutti si era follemente innamorato. Di Nicoletta (Strambelli ovvero Patti Pravo, ndr).
Innamoratissimi, entrambi».
Ri.Fo.:«Che c’è di strano? Succede!».
D.B.:«Certo! Solo che tu eri sposatociccio (ridono tutti)».
Ro.Fa.: «Erano sentimenti veri ma noi eravamo troppo giovani per affrontare una cosa simile e così l’abbiamo gestita male. Diciamo che è stato così, meglio per Red (ride)».
R.C.:«Loro sono stati veramente stronzi con lui e così lui è andato via e io sono entrato (ride)».
Ri.Fo.:«Cosa c’era da gestire a 50 anni di distanza io non l’ho ancora capito, comunque ok, è andata così».
È bellissimo tutto questo perché è un momento assoluto di realtà. Ma ritorniamo alla storia. A quel punto è arrivato “Parsifal”, uno dei dischi più importanti del rock progressivo.
R.C.:«Io arrivai proprio allora, nel ’73 quando appunto se ne andò Riccardo ed è stato un onore partecipare a quel disco: venivo dal mondo di Battiato e mi sentii subito a casa».
D.B.:«Grazie aParsifal abbiamo spiccato il volo assumendo un’identità unica nella musica» .
Ro. Fa.:«Noi non siamo mai stati di moda. Ma neanche fuori moda».
Amici per sempre?
Ro. Fa.:«Perché no? Senza il rapporto umano non avremmo fatto neanche un passo. Non è stato facile. Ci sono state grandi discussioni, anche brutte, ma alla fine l’amicizia, la voglia di continuare a sognare hanno vinto. Ed eccoci qui».