la Repubblica, 24 giugno 2023
Biografia di Victor Wembanyama
Victor Wembanyama, oltreché un giocatore di pallacanestro, è un trattato di fenomenologia preventiva. A 19 anni gli è già accaduto tutto benché niente sia ancora successo. Nella Notte del Draft, giovedì scorso, ha ricevuto l’Oscar per la carriera a venire. Prima scelta scontata per San Antonio: se puntavi 10 dollari che sarebbe andata così vincevi 2 centesimi. Era già tutto scritto. Come è già stato scritto che è il Kareem Abdul-Jabbar della Generazione Z. Che uno come lui però non si era mai visto: 224 centimetri e un raggio d’azione, una capacità di palleggio, un movimento di gambe e piedi inediti. Che Gregg Popovich, il coach più vincente della storia, ha rinviato il ritiro annunciato per poterlo allenare (e guadagnare 14 milioni l’anno). Che porterà in Texas in sesto anello. Sennò perché a maggio, quando fu annunciato che gli Spurs avrebbero avuto la prima scelta, ci sarebbero stati cortei di auto in strada con i clacson a tutto volume? Le ultime due volte in cui toccò a loro presero Robinson e Duncan, le Torri Gemelle mai abbattute. Wembanyama nell’ultima stagione ha ricalcato diligentemente le medie di Duncan prima del draft: 21,6 punti; 10,4 rimbalzi; 2,4 assist; 3 stoppate. Che cosa dicono queste cifre? Tutto e niente. La numerologia non è una scienza esatta. Cerca un rapporto tra una quantità precisa e quell’indefinibile qualità che risiede nella natura umana. C’è in Wembanyama, da qui in poi e per tutto il mondo Wemby a fini di rapidità promozionale? Chiunque risponda con sicurezza sta bluffando. La sola certezza è che si è messa in moto quella condensazione di polveri e gas, marketing e volontà popolare da cui nasce una stella.
Più che un predestinato, una profezia che cerca disperatamente di autoavverarsi, sostenuta a ogni passo verso il tabellone. Francese come Tony Parker (che pure brillò a San Antonio), Wemby è stato uno di quei bambini a cui hanno provato a mettere la maglietta del campione appena s’è mosso. A 4 anni, dopo averlo misurato, la mamma ex cestista capì che poteva seguire le sue tracce verso l’infinito e oltre. A 14 era già di 8 centimetri sopra i 2 metri e aveva rifiutato il Barcellona. Aspettava l’Nba. E l’Nba aspettava lui. Lo fa da almeno 3 anni, da quando brillò a Kaunas nelle qualificazioni per il torneo Adidas Next Gen. Era il febbraio 2020. A gennaio, in un incidente con l’elicottero, era morto Kobe Bryant. C’era bisogno di un principe. LeBron James era un re all’ultimo trono. Invertendo l’ordine naturale delle cose l’eco ha preceduto l’urlo. Si è cominciato a parlare di Wemby prima di averlo conosciuto. A guardarne gli highlights prima di una partita intera. Nello sport contemporaneo siamo tutti “osservatori”. Un tempo esisteva una categoria dedicata: rabdomanti di futuri campioni. Ora chiunque fa surf sulla rete cercando sprazzi di grandezza o margini di diversità, poi li rilancia, l’onda cresce, si fa tsunami, diventa il prossimo fenomeno. Si sente dire: uno così non l’avete mai visto, ma sono anni che lo facciamo. Conosciamo la sua velocità, la sua varietà di soluzioni offensive, le inusuali (per la sua statura) doti di palleggio e di controllo della palla. Cerchiamo i suoi punti deboli: ma quanto pesa? È davvero sopra i 100 chili o Jokic lo sposterà conun soffio? La soluzione da 3 può migliorarla o dovrebbe limitarla? Hanno perfino messo in streaming il campionato francese nel quale ha giocato, alcune sue partite sono state più seguite di quelle degli Spurs in una stagione dosata per arrivare primi al draft.
L’arrivo di Wemby a New York per quella serata è stato significativo. C’era folla all’aeroporto per il suo sbarco. Una limousine ad attenderlo. IlNew York Times ha fatto una specie di reportage sul suo viaggio in metropolitana (abbassa la testa/rialza la testa) per andare allo stadio degli Yankees e lanciare (malamente) la prima palla. Lo riconoscevano tutti. Lo applaudivano tutti. Sapevano non sarebbe stato scelto dai Knicks o dai Nets, eppure. “Forza Spurs!”, gli ha gridato una signora mentre scendeva. Tifavano per il basket, in sé. Perché ogni principe è un assist per la passione che lo circonda, il giro d’affari che genera. È amore e magliette. Meraviglia e fatturazione. Soltanto in America puoi fare un film su Michael Jordan (Air )dove l’eroe non è lui ma l’uomo che gli fa le scarpe, anzi gliele fa calzare. Non basta. Wemby prima scelta è il sogno che riprende, un altro kid che sbuca per convincere che il destino può essere conquistato, da ciascuno a suo modo, anche danzando con 224 centimetri e una palla. Adesso deve solo dimostrarlo. Nella storia già scritta, questa sarebbe una nota a piè dell’ultima pagina.