la Repubblica, 24 giugno 2023
Intervista a Fabio Concato
La voce inconfondibile di Fabio Concato. Quella morbidezza che si espande nelle canzoni e resta nitida anche in una chiacchierata sulla musica e sul tempo che passa. Fabio ha appena cantato a Musicultura, nello Sferisterio di Macerata: tutt’altro che un revival. I vecchi amici non vanno mai davvero via.
Ci perdoni, l’avevamo un po’ persa di vista. Come sta?
«Benissimo, grazie. Mi diverto ancora, e ancora mi sento un “facente parte” della produzione musicale.
Si viaggia, si aprono e chiudono valigie, si va incontro alle persone, che poi è la parte più bella del gioco.
Mi piace cantare ai concerti per chi è venuto lì e ti vuole bene».
La canzone popolare e d’autore sono i pilastri di Musicultura: hanno ancora senso? Cos’è, oggi, un autore?
«Questo non è un festival qualunque, e i cantautori ci sono eccome. Un modo bellissimo per non sentirsi pezzi da museo, ma persone che ancora porgono parole e note. La musica popolare può essere anche molto complicata e difficile, non va banalizzata».
Cosa vuol dire, porgere parole?
«Essere attenti al modo di accostarle.
Oggi esistono questi rapper, alcuni fenomenali, per carità, ma io fatico molto a leggere i loro testi con le orecchie, per così dire. Duecentomila parole tutte insieme appiattiscono una canzone: non credo che tra quarant’anni canteremo i brani più visualizzati oggi. Mi sembra manchi un po’ la musica».
Vale per tutti, maschi e femmine?
«Temo di sì. Prendiamo le donne: a parte Madame, una fuoriclasse, una che appena senti due note pensi “questa è Madame”, quasi tutte sono ottime fotocopie di voci anche belle, però troppo simili».
Cosa fa la differenza?
«La qualità, sempre. La riconoscibilità. Però lo stile non s’inventa a tavolino, non lo creano i discografici. Ci sono canzoni di cinquanta o sessant’anni fa che stanno ancora benissimo in piedi.
I classici li canteremo sempre.
Endrigo, Dalla e Lauzi sono immortali».
Torniamo ai suoi concerti. Lei ha appena compiuto 70 anni: oggi come vive l’incontro col pubblico?
«I giovani si stupiscono. Quando gli parlo, mi dicono che credevano fossi completamente diverso, non sapevano che sono anche ridanciano. Mi guardano con curiosità, e io sento arrivarmi addosso un grande affetto: attuale, non nostalgico. Ho desiderio di scendere nei teatri, vedo un Paese reale che mi piace molto. Due o tre generazioni le prendo con me».
Chi sono queste persone, secondo lei?
«Alcuni andavano a sentire De André o la musica brasiliana, altri Baglioni o Pino Daniele, un gigante che ascolto da decenni così come lui ascoltava me. Mi piace questa Italia trasversale e non teorica, non social ma in carne e ossa: la mia natura raminga ne se compiace molto».
Il concerto è ancora un rito contemporaneo?
«Sì, perché rispetta la varietà.
Suoniamo una nota nuova ogni momento, sempre diversa, irripetibile. Come nel jazz, il grande amore».
Perché Fabio Concato spiazza il pubblico?
«Perché mi hanno sempre ritenuto l’autore “a modino” che non sono.
Quello diFiore di maggio eGuido piano .La realtà è più complicata di così».
Scusi, ma non possiamo non chiederle del suo marchio di fabbrica: quanto è ancora bestiale, quella domenica?
«Oh, per me lo è stata moltissimo. A un certo punto non ne potevo più. E mi torna in mente quello che mi disse Gino Paoli: “Questa canzone finirai per odiarla, perché dovrai cantarla per tutta la vita. Farà la fine diSapore di sale».
Aveva ragione?
«In effetti, io eDomenica bestiale per un po’ ci siamo allontanati, però il pubblico quasi mi menava se non la cantavo. Io ci restavo un po’ così, finché ho capito che la gente paga il biglietto anche per lei. A mentefredda, devo ammettere che
Domenica bestiale è la canzone per antonomasia, pressoché perfetta nella scrittura. Non sono un falso modesto».
Un altro suo brano, “E ti ricordo ancora”, fu sospettato di omosessualità. Come andò?
«In ta nti ci rimasero male quando spiegai che era solo un ricordo della scuola elementare, un’ingenua carezza tra bambini. I discografici chiedevano “Fabio, sei proprio sicuro, vuoi modificarla?”
Io non capivo».
La famosa sensibilità di Concato: una qualità o una condanna?
«Ha molto condizionato la percezione che si aveva di me, mi ha limitato. Quelli che usano gli occhi come li uso io mi hanno amato per questo, ma ad altri sono forse apparso stucchevole. Se sei sensibile non puoi diventare cinico. Mi dicevano: “Sei bravo, però ti manca un po’ di cattiveria”. Come se la cattiveria fosse un valore».
Dove abita la creatività?
«Nei dettagli e nell’essere sinceri, altrimenti diventa una bravura di maniera. Conosco colleghi che hanno cavalcato un bel po’ di falsità,scrivendo e cantando cose che non gli appartenevano, soltanto per riprendere quota o vendere due dischi in più».
La sensibilità costa fatica?
«Moltissima, è una questione fisica, logorante. Una lotta. Come dover restare dalla mattina alla sera con sé stessi, ascoltando sempre la propria voce. Alla fine è lunga».
Lei si è molto impegnato per i bambini, ha pure scritto una canzone per Telefono Azzurro: perché?
«Anche da ragazzo i bambini mi incuriosivano. E quando vidi un manifesto con il viso di un bimbo gonfiato di botte, ho cominciato a pensarci davvero e dopo un mese è nata la canzone. Non dobbiamo mai abituarci alla violenza, altrimenti si arriva a ritenere quasi normale, che so, un femminicidio. Ecco gli argomenti per i quali si dovrebbe scendere in piazza».
Settant’anni cosa sono?
«Un modo per accettare di più sé stessi e meno gli altri. Però non è male, dài».
Cosa dice nonno Fabio alla sua nipotina, la figlia di “Fiore di maggio”?
«Lei è ancora piccola, ed è difficile trovare le parole giuste per spiegare un mondo a volte inspiegabile.
Ma qualche punto fermo resta.
Tipo: mai essere asettici, seguire sempre il proprio gusto e la propria natura. E ricordarsi che la buona creanza non è debolezza o mancanza di carattere. Essere gentili non significa essere coglioni».