La Lettura, 24 giugno 2023
Troppo poche donne in età fertile
Al primo gennaio di quest’anno le donne in età feconda di 15-49 anni erano in Italia 11 milioni e 607 mila, pari al 38,6 per cento del totale delle 30 milioni e 101 mila donne. Queste cifre non dicono molto ai non esperti. Ma tutti sono in grado di capire che la potenzialità delle nascite riposa per così dire su quella popolazione femminile in età feconda. E altrettanto in grado, in base a tale consapevolezza, di giudicare questi spostamenti. Primo spostamento: dal primo gennaio 2009, quando erano 13 milioni 867 mila, al primo gennaio 2023 le donne in età feconda hanno perso più di due milioni e 260 mila unità. Secondo spostamento: dai primi anni del Duemila, quando rappresentavano il 47 per cento del totale delle donne, le donne in età feconda sono scese a rappresentare meno del 39 per cento delle donne, perdendo oltre otto punti percentuali.
Siamo dunque in presenza di una variabile – il numero e la corrispondente proporzione delle donne in età feconda – che sta nel nostro Paese declinando velocemente. Possiamo con precisione dire quanto declinerà nei prossimi dieci anni, sempre nell’ipotesi di una mancanza di movimenti migratori. Entreranno nell’età feconda le bambine e ragazzine che hanno oggi dai 5 ai 14 anni, e che sono 2 milioni e 596 mila; mentre ne usciranno le donne che hanno oggi dai 40 ai 49 anni e che sono 4 milioni e 249 mila, per un bilancio negativo, una perdita ulteriore di donne in età feconda, di un milione e 653 mila unità. Al primo gennaio del 2033 ci ritroveremmo dunque con una popolazione di donne in età feconda che sfiora, senza arrivarci, i 10 milioni, pari al 34 per cento del totale delle donne che ci saranno in Italia a quella data. Se si pensa che una buona natalità è assicurata, a parità di ogni altra condizione, da una percentuale di donne in età feconda che non si colloca distante dal 50 per cento del totale, si capisce bene come già oggi siamo lontani anni luce da questa proporzione e a quanta velocità continuiamo ad allontanarcene.
Si lascino pure perdere proiezioni a più lunga scadenza: con 10 milioni di donne in età feconda su una popolazione prevista al primo gennaio 2033 di circa 57 milioni (poco meno di due milioni inferiore a quella di oggi) non si va da nessuna parte: si declina irreversibilmente, dal momento che se pure quelle donne si mettessero a fare qualche figlio in più, dato il loro formidabile assottigliarsi quantitativo le nascite non potrebbero che continuare ad assottigliarsi a loro volta – come sono del resto previste, in ulteriore contrazione fino a 350 mila nascite annue rispetto a un numero più che doppio di morti annui.
La debolezza strutturale della popolazione italiana, che si rivela compiutamente nella contrazione pressoché irreversibile di quella popolazione femminile in età fertile che esprime la potenzialità delle nascite, rappresenta il fattore massimamente condizionante dei nostri destini demografici, del destino della popolazione italiana, del destino dell’Italia tout court. Ho scritto pressoché irreversibile. Motivatamente. Se pure infatti la natalità in Italia cominciasse già dal presente anno a invertire la rotta che in una dozzina d’anni l’ha portata a lasciare sul terreno un terzo delle nascite, quell’inversione di rotta avrebbe un primo riflesso sulla popolazione femminile in età fertile solo tra quindici anni, quando gli attuali neonati in ipotizzato e auspicabile aumento avranno raggiunto quei quindici anni che peraltro solo in modo del tutto nominale (giacché dal punto di vista sostanziale di anni, per fare veramente dei figli, ce ne vorranno almeno altrettanti) valgono loro l’ingresso nella popolazione in età feconda.
Detto diversamente: la debolezza strutturale che massimamente ci condiziona non può cominciare ad essere curata che, minimo, tra una quindicina d’anni, ma del tutto debolmente e pressoché impercettibilmente, con quindicenni che per arrivare al primo figlio, se ci arriveranno, di anni dovranno aspettarne, agli standard attuali, altri 17-18. Ed ecco allora, a conclusione di tutto questo ragionamento, mostrarsi senza veli la più limpida delle verità: senza l’apporto di migranti, di parecchi anni mediamente più giovani degli italiani, e segnatamente di donne straniere in età feconda, l’anomalia strutturale italiana non potrà che aggravarsi, trascinandoci al fondo. Si odono alti lai contro i migranti economici. Sbagliato. È proprio ad essi che si dovrà guardare nell’irrinunciabile opera di controllo, governo e integrazione dei flussi migratori.
Alla luce di queste numeriche e ahimè incontrovertibili constatazioni la «proposta Giorgetti», ancora necessariamente nebulosa nella sua formulazione, e comunque tesa a dare una spinta sostanziale alla natalità della popolazione italiana abbattendo, vedremo come e quanto, le tasse alle coppie/famiglie con almeno due figli, sconta un peccato originale del quale non porta responsabilità: quello di cadere, vale a dire, su una platea di possibili interessate/i molto, troppo ristretta. Questo è il primo dei due limiti di fondo che presenta. Del secondo si fa presto a dire: le debolezze strutturali della popolazione italiana acquisite in decenni – non in anni: in decenni – di assoluta indifferenza demografica sono tali che non ci possiamo più permettere tergiversazioni di sorta.
Il governo Meloni, sia detto a suo merito, ha posto con energia il problema della natalità, intitolando perfino un ministero non alla sola Famiglia, ma anche alla Natalità. Ora occorre non disperdere questa energia, ma dirigerla nel modo più preciso sul bersaglio. Come? Differenziando fortemente l’assegno unico universale per il figlio tra primo figlio da un lato e secondo e terzo figlio dall’altro. Si resti pure per il primo figlio agli importi già previsti. Se le coppie si fermano al primo figlio, si sprofonda in un batter d’occhio. La salvezza è segnatamente nel secondo figlio. Anche nel terzo e nel quarto, ovvio, ma al terzo e quarto figlio approderanno, per quanto possano essere resi economicamente appetibili, poche, pochissime coppie: l’epoca dei molti figli e delle famiglie numerose è tramontata.
Tutti gli sforzi dovranno dunque convergere sul secondo figlio – il figlio che a differenza del figlio unico, che la affossa, salva la società. La bontà di una politica demografica moderna si misura sulla capacità di ridurre il più possibile la proporzione dei figli unici (e dei non figli, va da sé) e di incrementare il più possibile quella dei due figli. Si «ricompensi» dunque subito con 500 euro al mese la nascita del secondo figlio fino alla sua maggiore età e oltre. Subito, da domani, almeno 500 euro al mese a tutte le coppie, a prescindere dal reddito, che avendo già un figlio ne fanno un altro. Misura semplice e immediata con la più alta capacità d’impatto, anche emotivo, per un Paese come l’Italia avviato sulla strada del coma demografico irreversibile. E chi pensa o dice che questa è un’esagerazione è perché, con tutto il rispetto, di demografia e tendenze demografiche ne capisce il giusto.
Soprattutto non afferra questa verità: che se in una popolazione come quella italiana il potenziale delle nascite rappresentato dalla popolazione femminile in età feconda è, come abbiamo visto, gravemente insufficiente e si riduce a una velocità insostenibile, non basta affatto che quel potenziale sia rimpolpato con apporti dall’esterno, pure indispensabili, occorrerà anche fare in modo che questo potenziale si esprima per intero, non resti che in proporzioni fisiologiche inutilizzato, grazie a una coraggiosa, lungimirante politica che punti al massimo livello raggiungibile di formazione delle coppie.
Perché l’Italia, si tenga ben presente questo passaggio, non ha solo un deficit di popolazione femminile in età feconda, ha anche, non bastasse, un deficit di formazione di coppie delle età giuste per avere dei figli. Sono poche le donne che potrebbero avere dei figli, e sono ancora meno se si considera che a) il quoziente di nuzialità (numero annuo di matrimoni ogni mille abitanti) italiano è il più basso dell’Unione Europea dopo due piccoli Paesi come il Lussemburgo e la Slovenia; b) le coppie, anche quelle che rimangono allo stato di coppie di fatto, si formano tardi, quando specialmente per la donna diventa problematico, anche sotto l’aspetto strettamente biologico, il traguardo dei due figli.
Ed è allora qui, non nelle classiche politiche nataliste, che le cose si complicano davvero, perché è tutt’altro che facile creare le condizioni culturali, economiche e ambientali affinché l’Italia possa arrivare a una capacità di formazione di coppie, e segnatamente di coppie giovani, tale da sfruttare al meglio sul piano riproduttivo il mediocre potenziale delle nascite inscritto nella proporzione, insufficiente e declinante, di donne in età feconda. Diversamente se, com’è attualmente, la mediocrità strutturale di quel potenziale è aggravata dalla mediocrità congiunturale della formazione delle coppie, specialmente di quelle delle età congrue per avere più di un figlio, allora non può che succedere quel che del resto si profila non da ora: il declino quantitativo e qualitativo della popolazione italiana. Declino non certo a caso previsto da tutti gli organismi nazionali e internazionali, istituzionali e non, che studiano popolazioni e tendenze demografiche.
Occorre, lo dicono tutti e non mi soffermerò su questi aspetti, un mercato della casa per le giovani coppie fatto di mutui agevolatissimi e affitti iper calmierati da calibrare a mano a mano che la coppia procede in ambito lavorativo-professionale. Qualcosa di buono già c’è. Occorre ridefinire, estendere e al tempo stesso pubblicizzare seguendo i canali e i linguaggi giusti d’oggigiorno.
Occorre ancor più un mercato del lavoro decisamente e spregiudicatamente aperto ai giovani. Quante volte non lo abbiamo detto? Epperò, attenzione, perché fermarsi a una tale formulazione genera equivoci. Uno, in particolare. Quello che un mercato del lavoro decisamente aperto ai giovani sia questione che riguardi, se non in modo esclusivo certo in misura del tutto preponderante, il mondo imprenditoriale. Ora, sfatiamo questo luogo comune: non è così.
Il sistema formativo italiano, per usare un’espressione assai generale da sfiorare il generico per significare il sistema che forma i giovani per il loro futuro, perché trovino il posto che più si addice loro nella società, a partire ovviamente dal lavoro, quel sistema ha molto di che ripensare e riconsiderare in fatto di frizioni e distorsioni che accompagnano, senza accennare a ridursi, il rapporto che lega o dovrebbe legare, fatte ovviamente salve le sfere di autonomia di entrambe le parti, il mondo della formazione e il mondo del lavoro, della produzione e delle professioni.
C’è una forte polemica, specialmente di parte cattolica, contro l’eccesso di individualismo di società come quella italiana. È una polemica che non si può dire del tutto infondata. E tuttavia incapace di cogliere l’elemento davvero negativo dell’individualismo e dunque anche di proporre correttivi di una qualche efficacia al suo eccesso. L’elemento davvero negativo dell’individualismo in Italia, per intenderci, sta nella sua incapacità di realizzare obiettivi e aspirazioni (il cosiddetto ascensore sociale non ha mai funzionato così male come negli ultimi anni) o nel realizzarli troppo tardi nel tempo, quando la fase più creativa della vita, anche sul piano produttivo e riproduttivo, è già alle spalle o va declinando. È un ritardo, questo, esiziale, perché sposta in avanti a età quasi inservibili sul piano riproduttivo e dunque demografico i progetti di molti giovani e meno giovani di formare coppie e famiglie, di avere figli.
Ed è qui che entra precisamente in gioco una sempre più accentuata mancanza di sintonia del sistema formativo non genericamente col mondo del lavoro ma con l’humus stesso, insieme culturale e produttivo, dell’Italia. Due sono gli errori profondi che vanno corretti con la massima rapidità se vogliamo anticipare di quattro-cinque anni l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro e, con essa, la loro possibilità di raggiungere certi obiettivi di benessere e sicurezza tali da poter guardare alla possibilità della famiglia e dei figli.
Primo errore, il più grave, oserei dire tragico. Nel Paese del made in Italy, del turismo, delle produzioni di altissima qualità, dell’artigianato di pregio e artistico, della manifattura forse più avanzata, e differenziata, del mondo, siamo riusciti ad affossare, invece di qualificare, e di rilanciare anche sul piano della considerazione sociale, la formazione secondaria tecnico-professionale a vantaggio di una scombiccherata, tronfia, pervasiva e più ancora che inconcludente dannosa liceizzazione del sistema dell’istruzione secondaria superiore. Risultato: centinaia di migliaia di posti di lavoro che non trovano soddisfazione, la cancellazione di attività che sono il sale della ricchezza dell’Italia e centinaia di migliaia di giovani a navigare nelle nebbie di un futuro che potrebbero afferrare con immediatezza, se non fossero stati letteralmente traviati da un’aspirazione all’istruzione liceale che, sospinta allo spasimo dalla concorrenza tra licei di diversa etichetta più ancora che indirizzo, ha investito come uno tsunami famiglie e comunità.
Secondo errore, non decisivo come il primo ma quasi: l’aver lasciato la laurea breve a sé stessa, a vivacchiare nella sua minorità nell’ambito della formazione universitaria, oscurata dalla laurea magistrale che la fagocita, invece di adoperarsi per darle quel carattere di alta professionalità impiantata su salde basi culturali tale da potersi con naturalezza raccordare segnatamente col mondo delle professioni e delle produzioni di elevata tecnicità e modernità.
Recuperare su questi fronti, rimediare a questi errori che vengono da lontano, si diceva, è impresa improba. Ma se c’è una strada da battere con convinzione perché l’individualismo trovi prima e al più presto la sua soddisfazione e le coppie possano di conseguenza formarsi a età congrue con la possibilità dei figli, bene, allora questa è la sola strada giusta.