Robinson, 24 giugno 2023
Conan Doylde e Mark Twain: interviste
Nel 1890, con il suo proverbiale fastidio, Henry James dichiarò che quello scorcio di secolo era ormai «l’età dell’intervista»: come dargli torto, venendo a sapere che Arthur Conan Doyle si prestò a questo nuovo genere giornalistico non meno di cento volte, e Mark Twain oltre duecentocinquanta? Di questo imponente corpus vengono ora proposte due snelle antologie, che confermando quanto già si sapeva dei due scrittori ce ne rivelano anche nuovi risvolti e aneddoti. Al di là delle impressioni suscitate dal loro aspetto negli intervistatori («di corporatura immensamente robusta e appassionatissimo di sport», Doyle «è l’incarnazione stessa dell’uomo d’azione»; «con quella massa cespugliosa che gli scompiglia la testa e, altrettanto cespugliosi, i baffi e le sopracciglia, Twain è un personaggio tanto singolare e pittoresco quanto uno a scelta di uno dei suoi libri» ), al di là anche delle testimonianze delle rispettive battaglie ideologiche ( Doyle che tiene gratuitamente conferenze e scrive opuscoli in difesa dello spiritismo, in cui crede al punto da definirlo l’unica via moderna alla religione; Twain che, soprattutto a nome dei colleghi meno fortunati, gira il mondo propugnando il diritto d’autore), colpisce in queste conversazioni il rapporto vitale e fatale con i personaggi dei propri libri.Nato per imitazione ( «Sherlock Holmes è l’incarnazione letteraria del mio ricordo di un professore di medicina all’Università di Edimburgo: si sedeva nella sala d’attesa dei pazienti con una faccia da pellerossa e faceva diagnosi alle persone che arrivavano, prima ancora che aprissero bocca. Elencava loro i sintomi, forniva dettagli sulla loro vita e non sbagliava quasi mai. Così mi è venuta l’idea di Sherlock Holmes. Sherlock è assolutamente disumano, senza cuore, ma con un intelletto meravigliosamente logico»), il celebre investigatore si rivelò ben presto un ingombro per il suo autore, costretto dal successo a moltiplicarne le gesta a detrimento dei romanzi storici che più gli stavano a cuore ( «Il mio lavoro minore stava oscurando quello maggiore»; «secondo me La compagnia bianca, per esempio, valeva quanto cento storie di Sherlock Holmes»). È nota l’insofferenza – unavera forma di gelosia – con cui Doyle dovette tenere in vita il personaggio, fino a quando non trovò il coraggio di sbarazzarsene facendolo precipitare lungo una cascata; altrettanto nota la reazione di protesta da parte dei lettori ( «Non avrei mai pensato che l’avrebbero presa così a cuore. Ricevetti lettere da tutto il mondo che mi rimproveravano. Una, ricordo, da parte di una signora che non conoscevo, iniziava con: “Tu, mostro”»), secondo una dinamica “fanatica” puntualmente ripresa da Stephen King in Misery non deve morire.Meno note sono migliaia di lettere in cui i lettori si rivolgono a Doyle come se fosse Holmes, sottoponendogli enigmi polizieschi o invitandolo a risolvere casi di cronaca nera ( «Ricevo lettere indirizzate a lui, lettere che chiedono il suo autografo, lettere indirizzate al suo amico un po’ tonto, Watson; ci sono state persino signore che mi hanno scritto dicendo che sarebbero state molto felici di fargli da governante...»).Viceversa, Twain parla di Tom Sawyer e di Huckleberry Finn come dei suoi figli (con una netta preferenza per il secondo), insistendo sul fatto di averli conosciuti personalmente: «Non sono che copie di ragazzi reali, con l’aggiunta qua e là di qualche tratto ad effetto». Come nella Recherche di Proust, però, i modelli di ciascun personaggio sono più di uno, e vanno cercati fra i compagni di vagabondaggi di Samuel Clemens, il ragazzo che diventerà Mark Twain ( «C’è statascelta, raggruppamento, fusione. E mentre scrivevo un libro i suoi personaggi sono sempre stati vivi, giorno e notte, giorno e notte. Io andavo a letto, ma loro restavano alzati, parlando, parlando, parlando, agendo, agendo» ). Questo ha fatto sì che nel tempo si siano moltiplicati i pretendenti ad “essere” Tom, Huck o Becky; e quando Twain, ormai famoso, tornò ad Hannibal, il paese sul Mississippi dove tutto era incominciato, venne accolto dai sopravvissuti, perché la maggior parte di loro era al cimitero: «più di una dozzina di “veri originali” di Tom Sawyer e Huckleberry Finn sono morti negli ultimi venti anni. Mi chiedo quante volte gli originali di Amleto o Robinson Crusoe o Gulliver o David Copperfield (…) siano stati sepolti e fatti risorgere» osservò con malinconica arguzia.Infine, non si può fare a meno di segnalare, fra tanti anonimi intervistatori, la presenza di tre scrittori: P. G. Wodehouse e Bram Stoker per Doyle, e, per Twain, un giovane e adorante Rudyard Kipling, incantato dall’immancabile pipa di pannocchia dell’intervistato: «Avrei dato molto per avere il coraggio di chiedergli in dono quella pipa, del valore di cinque centesimi da nuova. Comprendevo perché certe tribù selvagge desiderano ardentemente di avere il fegato di guerrieri coraggiosi uccisi in battaglia. Quella pipa mi avrebbe procurato, forse, un’intuizione del suo acuto modo di penetrare nell’anima delle persone»