Tuttolibri, 24 giugno 2023
Sulla storia del Msi, di Alleanza nazionale e di Fratelli d’Italia
Quando, nel 1989, fece la sua prima comparsa in libreria questo «profilo storico del Movimento Sociale Italiano» – così lo definiva il sottotitolo – l’oggetto dello studio reagì con soddisfazione. Sebbene l’autore fosse «estraneo al percorso politico culturale» missino, scrisse il Secolo d’Italia, il suo era giudicato un lavoro «completo e organico» che «rompeva i vecchi schemi». Un’assoluta novità, per un partito che dagli intellettuali era abituato a ricevere solo anatemi, ma anche per un campo di studi in cui gli accademici erano restii ad avventurarsi, un po’ per idiosincrasia ideologica e un po’ per il timore che il solo aver scelto il neofascismo come soggetto di analisi li rendesse sospetti di collaborazionismo con il nemico. E infatti quei sospetti lambirono persino Ignazi, che pure aveva un pedigree irreprensibile, costringendolo persino a querelare Vauro, che sul Manifesto gli aveva dedicato una vignetta fuori luogo.I tempi della politica, però, sono imprevedibili, e a volte comportano repentini cambiamenti. Così, nell’arco di soli tre anni, quello che con felice immagine il libro aveva definito il polo escluso del sistema italiano venne catapultato da Tangentopoli addirittura al centro dei giochi parlamentari e di governo. L’inattesa parabola rese Ignazi molto più guardingo, suscitando in lui un riflesso critico riversato a caldo in un volumetto, Postfascisti? (il Mulino), che, pur essendo in gran parte un sunto dell’opera precedente, revocava in dubbio la convinzione precedentemente espressa che, grazie alla «lunga marcia nelle istituzioni», il Msi si fosse ormai socializzato alla democrazia, mantenendo gli originari connotati nostalgici solo per conservare il suo fondo di bottega elettorale. Trascinato al governo da Berlusconi, il partito della fiamma tricolore riproponeva inquietudini che erano parse ormai fuori luogo.La trasformazione del partito in Alleanza nazionale non cambiò granché lo scenario, ad avviso del politologo dell’Università di Bologna, che nella seconda edizione de Il polo escluso, datata gennaio 1998, nelle quaranta pagine aggiunte la giudicava «una operazione superficiale, di maquillage», che «non riesce a marcare un passo definitivo nel distacco dall’identità originaria» anche se fra i quadri intermedi del partito si faceva già allora strada «una spinta all’omologazione con una visione del mondo conservatrice e non più autoritaria».Con il passare dei lustri, continuando a seguire le vicende del mondo postfascista, Ignazi ha in più occasioni confermato quel giudizio, salvo attribuire al Gianfranco Fini degli anni successivi al 2001 una solitaria e anomala capacità di evoluzione e conversione che lo avrebbe reso un corpo estraneo al partito che dirigeva. La pubblicazione della terza edizione del suo libro più noto riprende quella linea di lettura e la proietta nell’attualità, illustrando con maggiore chiarezza i pregi e i limiti della interpretazione che la sorregge.Significativamente sottotitolata «La fiamma che non si spegne: da Almirante a Meloni», ed ancor più significativamente corredata, nella quarta di copertina, dal lusinghiero giudizio del quotidiano missino del 1989 (il pubblico dei lettori di destra si è ormai fatto non trascurabile ed è bene cercare di rassicurarlo…), questa ennesima versione del volume, immutata nelle prime quattrocento pagine – che rimangono una buona guida per il neofita dell’argomento, di cui vengono esplorati, oltre alla storia, la cultura politica, le strategie e la fisionomia organizzativa –, offre infatti nella postfazione un quadro sintetico riassuntivo che merita alcune osservazioni.La prima è che, riassumere in quaranta pagine «L’altalenante percorso della fiamma 1990-2022» era già in partenza un’impresa improba e ingrata, specialmente dopo che dell’ultima fase di quel percorso, coincidente con la nascita e lo sviluppo di Fratelli d’Italia, altri studiosi – ci riferiamo a Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, autori, sempre per i tipi del Mulino, del recentissimo Fratelli di Giorgia – avevano già fornito una ricostruzione e un’analisi ben più approfondita.La seconda è che, nel liofilizzare le argomentazioni espresse nell’epilogo della seconda edizione (che in questa non figura), il giudizio sulla seconda segreteria Fini risulta ancora più ellittico e sbilanciato. Non c’è traccia, ad esempio, nella ricostruzione delle vicende che caratterizzarono quella lunga stagione di leadership -certo non meno «cesaristica» di quella almirantiana – della pur evidente scelta del presidente di Alleanza nazionale di operare un gioco di sponda con Ds prima e Pd poi per farsi legittimare quale unico successore/sostituto «accettabile» di Berlusconi alla guida del centrodestra e del governo. Mondato dalle scorie di questo opportunismo dettato dalla (legittima) ambizione personale, il «leader sempre più solo» appare piuttosto come una sorta di cavaliere dell’ideale di una destra moderna alla Cameron e Sarkozy, costretto allo scontro con un partito «rimasto ingabbiato a metà strada tra un velato e pudico nostalgismo, pur epurato dalle sue scorie più sulfuree, e un moderatismo a tinte qualunquiste e populiste». Immagine che, a distanza di anni, appare esagerata nei toni, discutibile nella sostanza e non esente da un wishful thinking di sapore tutt’altro che avalutativo.Le perplessità maggiori, in questa parte nuova del libro, nascono tuttavia dal paragrafo dedicato a Fratelli d’Italia, fin dall’inizio descritto come prodotto di nostalgici del passato missino che, pur non dichiarandolo apertamente, puntano semplicemente a riesumare Alleanza nazionale -mentre invece, come Vassallo e Vignati documentano, la vocazione iniziale di FdI era proporre una sorta di «Pdl 2.0», epurato dell’egemonico personalismo berlusconiano. Man mano che la ricostruzione delle vicende del partito procede, questa lettura continuistica non fa che rafforzarsi, descrivendone le tappe come altrettanti passi sulla «strada sicura di un più o meno velato nostalgismo, irrorato da abbondanti dosi di sovranismo euroscettico e di pulsioni xenofobe e sicuritarie». Il tutto su uno sfondo dove più volte affiorano gli aggettivi illiberale, reazionario, cospirazionista e le tesi espresse nella mozione del secondo congresso del partito del 2017 «denotano un’intima sintonia sentimentale e ideologica con il neofascismo, del quale si rivendica una continuità ideale». Di questa «relazione irrisolta con il passato», peraltro, FdI secondo Ignazi non si sarebbe liberata neppure in seguito, continuando a mostrare una «visione populista e cospirativa» e un «sostrato illiberale», che «l’uso accattivante della sua figura» da parte di Giorgia Meloni non farebbe altro che nascondere.Per dirla con Vassallo e Vignati, in questa interpretazione ci pare ancora una volta affiorare una lettura di testi fuori contesto. Una tendenza che, purtroppo, pare caratterizzare oggi gran parte della produzione politologica dedicata all’area della destra, a cui per riflesso condizionato e timore di derogare al conformismo si applicano frettolosamente etichette come «populista» e «radicale» senza dedicare un’adeguata attenzione ai fermenti innovativi, se non addirittura alle metamorfosi, che vi si stanno manifestando. Certo, anche Ignazi riconosce il cambiamento che FdI e la sua leader hanno subìto nel passaggio dall’opposizione al governo, ma lo fa per insinuare poco dopo che in esso potrebbe rivelarsi «strumentale e congiunturale».È vero che, come indica l’autore, la veridicità o la fallacia di questa lettura lo attesterà il passare del tempo. Ad oggi, però, a noi pare che i fatti stiano dando ragione a chi sostiene che, per opportunità o per convinzione, Fratelli d’Italia abbia imboccato la via dell’afascismo, al cui termine si colloca non un ulteriore «ricalibramento dell’ideologia fascista», come Ignazi ipotizza, ma la fuoriuscita, pur non dichiarata, da quel solco ideologico, per dare vita ad un partito compiutamente nazional-conservatore. Il futuro ci dirà quale di queste interpretazioni si sarà rivelata più fondata.