la Repubblica, 23 giugno 2023
Storia delle tragedie negli abissi del mare
Nel buio si sentono le voci dei compagni che diventano flebili. Ogni tanto uno trova la forza di urlare per tenere svegli gli altri: chi si addormenta rischia di non svegliarsi mai. Più il tempo passa e più ci si stringe l’un altro, per darsi coraggio o per disperazione, tenendo le mani aggrappate ai tubi come estremo rimedio per scacciare il sonno letale. Questi sono gli ultimi minuti nello scafo di un sottomarino colato a picco: una lotta per risparmiare fiato, finché nella cabina si esaurisce l’ossigeno e i gas fanno chiudere gli occhi una volta per tutte. L’unico conforto è l’abbraccio collettivo, che cerca di esorcizzare la solitudine dell’abisso.
«Nel resto della mia vita non ho più assistito a un simile esempio di cameratismo e di amore fraterno. Hanno diviso le coperte, lo spazio affollato, giacendo ognuno nelle braccia dell’altro per trovare un po’ di calore», ha dichiarato il capitano Oliver F. Naquin. Lui e altri trentuno uomini nel 1939 furono tirati fuori dal ventre dell’Uss Squalus, intrappolato cento metri sotto l’Atlantico gelido: altri 26 non hanno avuto scampo. Un’eccezione: i soccorsi conclusi con successo si contano sulla punta delle dita. E in rari casi quelli che non ce l’hanno fatta sono riusciti a lasciare testimonianza del calvario: i sommergibili che affondano non vengono quasi mai recuperati, trasformandosi nel sacrario del loro equipaggio.Sono celebri le due lettere del giovane tenente Dmitri Kolesnikov, scoperte nella sua tasca quando Putin agli esordi del potere ordinò di portare a galla il relitto del Kursk. Era riuscito a sopravvivere in un pezzo del sottomarino nucleare dilaniato dall’esplosione nell’agosto 2000. «Sono le 13 e 15. Tutto il personaledelle sezioni sei, sette e otto si è spostato nella sezione nove. Qui siamo in ventitrè. Lo abbiamo deciso perché nessuno di noi può andare via. Se cercassimo di raggiungere la superficie, la decompressione ci ucciderebbe. Ci sentiamo male, indeboliti dal diossido di carbonio. La pressione sta aumentando. Possiamo resistere un altro giorno».Due ore dopo la grafia perde rigore e i tratti si fanno confusi. Anche le torce d’emergenza si sono spente: «C’è troppa oscurità per scrivere, ma ci provo a intuito. Sembra che non ci siano chance, il 10-20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno legga questo. Qui c’è la lista delle persone che sono nella nona sezione e tenteranno di uscire. Saluti a tutti, non vi disperate. Kolesnikov».
Il foglio ha i bordi bruciati. I superstiti del Kursk avevano alcune candele speciali in grado di produrre ossigeno: la fiamma però ha incendiato le sostanze chimiche disperse dai macchinari. Forse il tenente a quel punto ha deciso di osare una sortita. Non lo sapremo mai. Nella pagina sono state aggiunte alcune parole, ancora meno chiare, interpretate come una raccomandazione alla moglie: «Olya, ti amo. Non essere sconvolta. Salutami tutti i miei cari».
Novant’anni esatti prima, agli albori dell’era dei sommergibili, il tenente nipponico Sakuma Tsutomu ha redatto un diario dai toni più eroici. Il suo mezzo sperime ntale è sprofondato nel golfo di Hiroshima con 13 marinai che hanno tentato l’impossibile per ripararlo. «I miei subordinati stanno morendo per colpa mia ma è con orgoglio che vi informo che hanno compiuto il loro dovere fino al momento di soccombere», ha vergato con grafia elegante, assumendosi tutte le responsabilità: «È la mia più sincera speranza che sua Maestà l’Imperatore sostenga le povere famiglie dell’equipaggio. La mia paura è che il disastro ostacoli il perfezionamento dei sottomarini. Possiamo morire senza rimpianti».
Chi vuole provare a comprendere le sensazioni claustrofobiche della loro sorte può affrontare la visione di due film. Uno èU-Boot 96,da non confondersi con la serie tv, diretto da Wolfgang Petersen nel 1981 come «un viaggio ai limiti della mente umana»: la missione di un battello tedesco intrappolato a lungo davanti a Gibilterra. L’altro èUomini sul fondo del 1941: una pellicola voluta dalla propaganda mussoliniana che invece anticipa il neorealismo. In questi casi, i fondali del Mediterraneo e la carenza di spazio rendono torrido il clima a bordo, con gli uomini seminudi e immobili impegnati a risparmiare acqua e fiato, mentre sono costretti pure a indossare le maschere antigas per difendersi dai vapori velenosi. Un incubo lento, che può durare giorni. Prima di salpare per l’ultima missione del Kursk, il ventisettenne tenente Kolesnikov aveva composto una poesia per la moglie: «E quando arriva il tempo di morire, nonostante mandi via questi pensieri, voglio il tempo per sussurrare una sola cosa: mia cara, ti amo».