Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 23 Venerdì calendario

Intervista a Fausto Bertinotti

Fausto Bertinotti, nato a Milano nel 1940, quartiere Precotto. Padre Enrico, macchinista ferroviere, socialista di cultura anarchica, anticlericale. Madre Rosa, casalinga, cattolica. Un fratello, Ferruccio, anche lui ferroviere. La moglie Gabriella, Lella, sposata quando lei aveva diciotto anni. Un figlio, Duccio, in onore di Galimberti, assassinato dai fascisti nel ‘44. Il sindacato, le lotte operaie, la politica, lo scontro con Prodi, la presidenza della Camera. Più che quella di presidente ama la definizione di segretario, figlia degli anni alla guida della Cgil del Piemonte, perché dà più il segno del collettivo.


Segretario, che ricordi ha della sua infanzia?
«Tanti e potenti. La guerra, le sirene, i bombardamenti. Mio padre che ci porta al riparo giocando e cercando di farmi ridere. Mia madre garanzia della nostra sicurezza».




PUBBLICITÀ




Un diploma da perito elettronico, preso in ritardo.
«Scuole a Milano e Novara. Studi tecnici, per poter lavorare presto. Non li amavo, non ero adatto. Tanto tempo in biblioteca e poco in classe».


Poi l’amore con Gabriella, compagna di una vita.
«Fu subito Lella, per supplire alla mia erre blesa, poi Lella per tutti. Ci unì la politica, la musica impegnata, la rivista Cinema nuovo di Guido Aristarco. Bergman, Eisenstein, sì il regista della corazzata Potëmkin, Lang, il neorealismo».


Il matrimonio. In chiesa, per volere della madre di lei.
«Era minorenne, serviva il sì dei genitori. Celebrò il mio insegnante di religione. Colto, raffinatissimo, con lui discussioni infinite. Un sacerdote molto importante nella mia formazione».


Che rapporto con la fede?
«È in continua evoluzione. La ricerca permanente di un rapporto, anche se mai tentato dalla conversione. La mia è la generazione del Concilio vaticano II, gli uomini di buona volontà, il no allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il parroco della chiesa di Sant’Eustachio a Roma mi volle all’inaugurazione del presepe. Dissi che mi pareva troppo per un non credente, mi definì “diversamente credente”. E in fondo anche il socialismo è una fede».


Un figlio di nome Duccio, come Galimberti. Che padre è stato?
«Quel nome, un piccolo gesto per “riparare al torto”, come recita la canzone. Non sono stato un padre assente, semmai, e magari è un difetto, più un amico o un fratello maggiore. Trovo difficile esercitare l’autorità, di questo sono colpevole».


Anche suo fratello Ferruccio ferroviere, per lei invece la politica. Come mai?
«La politica la respiravo in casa, una famiglia di intellettuali di strada. Mio padre lo vedo chino ascoltare Radio Londra, ospitare di nascosto un partigiano, sono sulle sue spalle ad ascoltare Pietro Nenni, con il suo basco, in una piazza del Duomo gremita, alla vigilia della sconfitta del Fronte popolare, nel ‘48».


L’esperienza sindacale, la battaglia della Fiat, la Marcia dei quarantamila. Che pensò quel giorno?
«Considero Rosa Luxemburg mia madre culturale e penso con lei che “ci sono delle sconfitte che insegnano di più che cento risoluzioni del comitato centrale”. Avevamo perso ma bisognava andare avanti. Incontrai centinaia di compagni. Ci si abbracciava, anche piangendo. La politica può essere grande anche nella sconfitta. Ci sono battaglie che vanno combattute. Puoi perderle, ma se non le affronti ti suicidi politicamente».


No a Dini, la rottura con Prodi, no a D’Alema.
«Quella con Prodi fu una rottura drammatica. Fu in quegli anni che si decise la rotta dell’Europa. C’era da scegliere tra Maastricht e una svolta sociale e solidale. Vinse la globalizzazione, sulle ali di un centrosinistra che governava gran parte del continente. La sinistra diventò liberale e non più socialista. Fu il segno di una conversione, di una mutazione genetica».


Lombardi e Ingrao nella sua formazione, Kissinger e Agnelli in quella di Mario D’Urso. Come nacque la vostra amicizia?
«Una contagiosa simpatia personale, e poi la desistenza. L’Ulivo ci sosteneva in alcuni collegi, noi non ci presentavamo in altri. Ma su Mario D’Urso candidato ci fu la ribellione dei compagni campani. Mario mi chiamò: che succede? Noi rispettiamo i patti, dissi. Fu eletto, vincemmo le elezioni. La vicenda dell’eredità che mi ha lasciato? Non me ne occupo, c’è il tribunale, mi atterrò a quello che decide».


Un giudizio su Meloni.
«L’ho definita afascista. Il suo è il primo governo di destra della Repubblica, in altri casi era subalterna. Si propone un’operazione ideologica ambiziosa: cambiare la cultura, abbattere l’antifascismo come religione civile del Paese. Una grande offensiva ideologica e regressiva a cui si aggiungono uno schema liberale e scelte di governo corporative».


E la sinistra? E il Pd di Elly Schlein?
«La sinistra non c’è più. È scomparsa, senza anima e senza corpo. O meglio, esiste una sinistra sociale diffusa, priva di rappresentanza istituzionale e politica. Vota la metà del Paese e la sinistra non ne fa il centro della sua azione, si perde in balletti su alleanze, simboli, flebili vagiti. Non coglie che, pur avendo vinto nettamente, la destra non è maggioranza nel Paese. Si può rinascere, ma solo seguendo Gramsci: “Quando tutto è perduto bisogna rimettersi all’opera, ricominciando da capo”. Anche Schlein è espressione di quella cultura che in America si rispecchia nei liberal. Non esce dal recinto. C’è la guerra, il dramma delle disuguaglianze, l’emergenza ecologica. Ripeto: ci sono liberal e riformisti, la sinistra non c’è. Serve un nuovo anticapitalismo, ce n’è di più nella Laudato si’ che in quel che resta della sinistra».


Abolire la proprietà privata è ancora un obiettivo?
«È un bisogno dell’umanità, un destino dell’uomo, come la pace».


Berlusconi. Con lui ha condiviso solo il Milan.
«Ho scelto il silenzio alla sua morte. Un imprenditore che ha sostituito la politica. Protagonista di una grande operazione di controriforma. Una volta gli dissi che se avesse fatto solo il presidente del Milan sarebbe stato perfetto».


Si litiga sulla riforma della giustizia.
«Sono un garantista. Penso con Foucault che una società che pensi solo a sorvegliare e a punire sia orribile. Sono contro le intercettazioni usate per demonizzare. Giusto abolire l’abuso d’ufficio».


E l’Ucraina? Con Biden o con Putin?
«Non scelgo l’albero a cui impiccarmi. Putin ha scatenato la guerra, Biden gli ha tenuto bordone. La guerra non andava fatta e ora va fermata, l’unico modo è la trattativa. E l’Europa sta tradendo la sua vocazione pacifista».