Il Messaggero, 23 giugno 2023
Intervista a Renzo Rosso
Ha il piglio di una rockstar, ma con la pacatezza del frontman navigato prima di un concerto nello stadio esaurito. Renzo Rosso, 67 anni, aspetto da surfista anche quando indossa il completo («per ragioni di etichetta, ma per 360 giorni all’anno ho i jeans»), è il proprietario di un gruppo del lusso, OTB - Only The Brave, che comprende Diesel, Maison Margiela, Marni, Jil Sander e Viktor & Rolf. Un universo diversificato di cui è molto fiero, quasi quanto il tatuaggio Only The Brave sulla caviglia, che mostra alzando l’orlo del pantalone. Significa Solo i Coraggiosi.
Ma cos’è il coraggio oggi?
«Quella scritta è nata grazie a un giovane grafico che incontrai in Inghilterra. Viveva in povertà, ma era eccezionale e gli commissionai il logo dell’allora neonata Diesel. Creò un punk e aggiunse quel claim, perché mi disse che ero l’uomo più coraggioso che avesse mai incontrato. E in ogni mia iniziativa imprenditoriale c’è quel "brave", perché ho, appunto, il coraggio di fare le cose che vanno fatte e di cambiare la realtà».
È aiutato da qualcuno nelle scelte?
«Sono orgogliosamente circondato da giovani. Bisognerebbe metterli in ogni settore, perché la loro voglia di cambiamento unita alla saggezza dei senior manager farà andar sempre bene un’azienda».
I ragazzi come andrebbero avvicinati al mondo del lavoro?
«Mio padre aveva una proprietà rurale e io gli davo una mano. Gli anni dell’infanzia sono stati magici, ma lui voleva che studiassi. Mi iscrissi a un istituto tecnico industriale specializzato in confezioni di abbigliamento ed è stata una scuola meravigliosa. Non c’erano insegnanti, ma tutti erano manager di aziende e ti preparavano per il lavoro. Per me la scuola dovrebbe essere questo: un’interazione con l’industria. Quando mi chiedono cosa farei se andassi al governo rispondo sempre che punterei all’istruzione. L’educazione è importantissima: solo così si può cambiare davvero un paese, perché aggiustare le leggi è solo mettere delle toppe».
Lei entrerebbe in politica?
«Ho avuto tanti inviti da più parti, ma ho sempre risposto di no, perché è un mondo dove, purtroppo, si parla tanto, ma manca la concretezza. Mi limito a dare consigli».
Intanto ha costruito un polo del lusso italiano...
«Ho sempre mirato a fare qualcosa di più. Il primo con cui sono entrato in contatto è stato Martin Margiela, che era corteggiato da grandi imprenditori: ma ha cercato me per chiedermi di dargli una mano a sviluppare la sua linea. E da lì mi sono trovato in un mondo che mi attraeva molto, diverso, più cool».
È stato guardato con sospetto?
«Il lusso è un po’ strano, fatto anche di persone molto snob. Negli Anni Novanta, peraltro, era in mano a commessi diventati direttori generali, non c’era vera professionalità. Quindi ero visto come alternativo e con gelosia».
Come si rapporta rispetto ad altri gruppi come LVMH o Kering?
«Provo ammirazione per la loro grandezza. Non li combatto, faccio qualcosa di alternativo. I nostri brand non sono uno la fotocopia dell’altro, hanno tutti un Dna forte e c’è una community attorno a loro. Sono ambiti e copiati. Non ho mai pensato di fare cose grandiose, ma ho sempre puntato alla bellezza e al suo sogno. Ciò che mi fa stare bene è la gente che mi ferma per strada e mi dice che ama indossare un mio capo. Faccio cose di nicchia e mi rivolgo a un pubblico più selettivo che ha la cultura di capire l’esclusività».
Le piace confrontarsi con le persone?
«Quasi ogni mese incontro i miei direttori creativi: ognuno ha una sua visione e, ascoltando i loro pareri, me ne faccio anche io uno, completo. Nelle mie azienda organizzo spesso colazioni con i dipendenti, dai manager agli stagisti, e ognuno dice ciò che pensa. Ricevo costantemente messaggi su Instagram e rispondo entro 24 ore. Sono molto curioso e convinto che se parli non impari nulla, perché dici cose che già sai, ma se ascolti conosci qualcosa che ignoravi».
Cosa è il jeans per lei?
«Nasco col denim, lo adoro e gli devo la mia vita. Credo di aver cambiato quel settore, tant’è che oggi nel mondo del lusso tutti hanno in collezione capi in questo materiale e noi siamo stati i promotori. È un tessuto che dà libertà e comfort. Ed è in trasformazione tanto che abbiamo fatto la couture del jeans».
Avete appena aperto uno store dedicato solo alla borsa di Diesel 1DR. Quanto contano gli accessori?
«Se si vuole essere rilevanti bisogna essere completi nella proposta. Stiamo elevando Diesel, di modo che diventi qualcosa di alternativo democratico al lusso e un brand completo».
Il gruppo OTB ha da poco presentato il bilancio di sostenibilità. Come ridurre l’inquinamento?
«Inizialmente, non immaginavo che la moda fosse così devastante in tal senso. Ho sempre mandato avanti l’azienda in modo sostenibile, ma dal punto di vista sociale. Capita la problematica, ho mandato i miei manager a studiare per trovare un approccio più ecologico. In Diesel adesso il 70% del prodotto è sostenibile ed è certificato. Per il 2030 dobbiamo essere completamente decarbonizzati e siamo a buon punto».
Diesel sta riutilizzando gli scarti di tessuto e il processo avviene in Tunisia. È difficile produrre in Italia?
«Sarei felice di farlo qui, come avviene per gli altri marchi. Per Diesel siamo costretti ad andare fuori per riuscire a essere competitivi per quello che è il posizionamento del brand».