Il Messaggero, 22 giugno 2023
Intervista a Lino Banfi
La prima cosa che colpisce di Lino Banfi – Andria 1936 – è la prontezza di riflessi, la lucidità, la memoria infallibile. Il suo racconto, quello di una vita di successi straordinari nel cinema e nella televisione, ma anche di inizi stentati e di periodi sofferti, è segnato dalle difficoltà economiche. Banfi ha lavorato con tutti i grandi nomi dello spettacolo italiano, registi, attori, attrici, ed ha anche saputo imprimere ai suoi personaggi un marchio inconfondibile, quello che lo fa amare dal grande pubblico e ne fa un personaggio, anzi una personalità, che sfida il tempo e le mode. Dal recente dolore per la morte dell’amatissima moglie Lucia all’amore per la famiglia, Banfi è un inesauribile fonte di frammenti ragionati dell’Italia di ieri e di oggi. Lo spessore dell’artista e dell’uomo fanno di questa conversazione una lezione di vita e di sano, critico, ottimismo.
Berlusconi lo conosceva bene?
«Una grande amicizia: sentirò la mancanza della telefonata che mi faceva da quarant’anni, tutti gli anni, ogni 11 luglio: “Ciao vecchio, come stai?”. Quando mi scritturò all’inizio degli Anni 80 per fare Risatissima, lui ci teneva che io lo sfottessi perchè funzionava: la gente rideva. Io dicevo “quest’uomo quando sono andato a trovarlo a Mileno, credevo che era tre metri e mezzo, invece era un uomo normale anzi più basso di me con delle recchie tipo elefante”. Più dicevo queste cose, più lui veniva in camerino: “Lino picchia, va bene: la gente ride!"».
Una grande autoironia.
«Pensavano che lui fosse permaloso. Non è vero. Gli rimasi impresso più degli altri per i racconti della mia vita da migrante. Diventammo amici perché cantavamo nella stessa tonalità le canzoni francesi; ma soprattutto quando raccontai quello che dicevo alle ballerine negli spettacoli – “Guardate Sordi, Manfredi, Gassman ma io un giorno ci lavorerò con questi, io farò i film, io firmerò gli autografi, io comprerò le bistecche...” – loro mi guardavano come fossi matto. Mi raccontò che era accaduto anche a lui quando diceva che voleva costruire Milano 2. Tre-quattro giorni dopo l’attacco con la statuetta andai al San Raffaele di Milano a salutarlo. Il fratello Paolo mi fece entrare ma combinai un guaio: io volevo farlo ridere, ma lui non poteva: “Porca puttena Silvio, che ti hanno fatto? Altro che corpo contro un dente ma questo è contro quattro denti”. Lui non poteva ridere aveva paura che si aprissero i punti».
Una vita di attore, il suo bilancio?
«Delusioni 35 per cento, gioie acquisite 65 per cento. Ho dovuto aprirmi una strada che non c’era, inventarmi un linguaggio inizialmente esasperato e poi piano piano smussato. Io dovevo riuscire a creare un genere e oggi rifarei tutto quello che ho fatto».
C’è una frase nella tua infanzia che ancora ti accompagna?
«"Ti spezzo la noce del capocollo”, che diceva mio zio Michele. Mi ricordo che quando qualcuno litigava, andavamo da lui a lamentarci e lui: “Portamelo qua, ci spezzo la noce del capocollo”. Pensa cosa ho trovato nel mio moviolone dei ricordi: quando c’era la guerra dovevamo scappare ai ricoveri. E mio nonno: “Pasqualino, ricordati i pupi”. Io avevo costruito due piccoli pupazzi, Orlando e Rinaldo, li portavo nel ricovero e facevo ridere i bambini della mia età. Era il mio compito già da allora. E fra di loro i pupi si dicevano “ti spezzo la noce del capocollo"».
Come definiresti la sua carriera dall’inizio ai nostri giorni?
«Nazionalpopolare, un termine che mi piace. Però da questo a diventare amico di tre papi non me l’aspettavo. È stato molto più grande di me quello che ho avuto».
Qual è il segreto di un successo solido?
«Durante tutta la mia carriera ho saputo sempre cedere la mia sedia, ad esempio al vecchio generico che sta lì a prendere freddo in piedi. Questo altruismo dentro di me l’ho sempre avuto».
Che cosa decide il successo di un film?
«Gli agenti allora dicevano “il marciapiede è caldo”. Nei cinema usciva il film e la prima giornata più gente entrava più il marciapiede era caldo. Quello che rimane di tanti film che ho fatto io è il linguaggio assimilato da tre generazioni. Questo è il compenso oltre all’incasso del film».
C’è stato un maestro nella sua vita?
«Ho saputo rubacchiare poco a ognuno dei vari grandi quando li vedevo lavorare. Allora tutti volevamo diventare Sordi, io sono riuscito ora perchè sono sordo al 30 per cento... Totò mi suggerì di modificare il diminutivo del cognome Zaga da Zagaria – non portava bene. L’amministratore della compagnia era anche un maestro elementare in una scuola di Roma, aprì il registro il primo cognome era Banfi. Scrivemmo sulla locandina Lino Banfi».
Che cos’è il dolore per lei?
«È una cosa talmente forte che comincia quasi con un odio verso tutti e poi invece stranamente in certi momenti il dolore diventa quasi una carezza. Delle sere, solo davanti alla tv, automaticamente dico una frase girando la testa verso destra, verso la poltrona che adesso è vuota, pensando che mia moglie sia ancora lì. Poi in un attimo capisco. Allora lascio la parola a metà. Però quella è quasi una gioia che provo in quel momento. Quindi il dolore provoca anche rilassamento, sorriso, insomma è una strana sensazione che non si può spiegare».
Il sentimento nel quale ti riconosci di più?
«L’altruismo».
Che cosa apprezzi di più nel prossimo?
«La sincerità : chi viene da 60 anni di lavoro come me del palcoscenico diventa una vecchia puttena, come direbbe Banfi papele papele, è difficile prendermi in giro».
Che cosa detesta di più negli altri?
«Quando una brava persona diventa per alcuni il fesso della situazione».
Che cos’è l’applauso del pubblico?
«L’applauso quando è forte vuol dire che ti vogliono bene. Addirittura adesso si alzano in piedi, si commuovono e mi chiamano maestro».
Che cosa significa questo amore del pubblico?
«Significa che io ho saputo costruire insieme a mia moglie che è stata definita poi dal Papa “la luce” perché dice “a che serve che voi attori sapete recitare bene se non avete una bella luce in faccia”. Io e mia moglie abbiamo messo i mattoncini uno vicino all’altro con cemento armato di prima qualità».
La parola più bella.
«Amore, che nessuno usa più. Con mia moglie ci chiamavamo così. Vorrei insegnare ai giovani ad usare la parola amore».
I valori fondamentali nella vita?
«Quelli di sempre: onestà, altruismo, rispetto per persone anziane, e l’affetto verso i bambini».
E se un ragazzo ti chiedesse “Lino, vorrei fare l’attore” cosa consiglieresti?
"Pensaci bene, fatti mille domande. Non pensare subito che tutto ti venga dato. Prova, se va bene va bene”. Non deve essere una fissazione. La cultura conta. Si può essere un attore celebre ma se sei anche laureato è meglio, aiuta».
Che cosa la fa ridere?
«Le coincidenze. Quando accade una cosa che non è prevista».
Ha mai pensato adesso basta, mi ritiro?
«No. No... proprio adesso? Io dico che siamo ai rigori a oltranza».
Quella lettera di Papa Francesco, dopo la scomparsa della sua amatissima moglie, la rilegge?
«Sempre. Poi io ho scritto a lui due giorni fa, quando è uscito dal Gemelli».
Che rapporto ha Banfi con lo scorrere del tempo?
«Ottimo: addirittura ho avuto la grande soddisfazione di vedere dei giornalisti pentiti che mi dicevano “sai che io prima andavo a vedere i tuoi film di nascosto?”. Di nascosto? E perché?. “Se quelli sapevano che andavo a vedere il tuo film, mi divertivo e ci facevo pure due parole sopra, magari mi licenziavano”. Io, invece di incazzarmi rispondevo che forse avrei fatto anch’io la stessa cosa».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Voglio far scrivere sulla tomba di famiglia: “Mi vuoi regalare una lacrimuccia? Va bene, però sorridi».
Qual è la sua scala degli affetti?
«I miei figli e una famiglia, che vive a casa mia da vent’anni, dello Sri Lanka. Mi piace essere una quercia, l’albero grande».
Le piace essere chiamato il nonno d’Italia?
«È la cosa più bella. Quando vado a trovarlo il Papa mi dice: “Ah, ecco il nonno d’Italia!”. Io rispondo in spagnolo: lei è l’abuelo del mundo, Santità».
Le piace di più girare per il cinema o la tv?
«La tv perché è tutto in diretta. Un bel film lo sto aspettando per chiudere il cerchio: il docufilm sulla mia vita lo voglio fare da vivo, non da morto».
In cinque parole chi è davvero Lino Banfi?
«Voglio rimanere impresso nel cervello».