il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2023
Intervista a Dardust
Dardust, lei che nota è?
Così a bruciapelo? Un Sol diesis.
Perché?
Me l’ha suggerito l’inconscio. Forse perché è quasi al centro dell’ottava.
E ora lei finalmente è al centro della sua musica, con il tour Duality…
Ho messo da parte il mio istinto da produttore per concentrarmi sulla creatività. Duality è uno spettacolo articolato. La sezione Left Emisphere incentrata sui colori elettronici e la Right Emisphere, piano acustico. Il lato razionale e quello emotivo del cervello.
Sabato sarà ospite di Musicultura, a Macerata, nelle sue Marche.
Suonerò un mash-up tra la Tarantella di Rossini e una pizzica del Seicento, poi Burden, un brano da battaglia con i techno-rullanti, i machine snare, molto giapponese, e infine Paradise 43 con Tropico, uno dei pochi brani cantati di Duality, con qualche analogia del lavoro di arrangiamenti fatto insieme a Lazza su Cenere.
Un altro colpaccio, quello di Sanremo 2023.
Devo essere motivato per scavare nell’ingegno altrui. Con Lazza c’è stata una sorprendente alchimia, così come quando Mahmood vinse il Festival con Soldi.
Quanta fila ha tra i candidati al prossimo Sanremo?
Un sacco di chiamate. Ho detto no a tutti, e non per fare lo snob. Magari non ci sarà la mia firma su alcuna canzone in gara. Però se capita il miracolo di una cosa che mi attira a sé, non mi negherò alla session.
Si è chiamato fuori dal rischio di creare il cliché del pop italiano tutto targato Dardust, o Dario Faini.
Mi hanno criticato: ma come, sei al top e scendi dalla barca? Credo sia una scelta coraggiosa dedicarmi a Duality, con la sua complessa architettura. Voglio costruire la mia cattedrale. Al tempo stesso non volevo inflazionare il mio marchio, malgrado i numeri importanti nelle classifiche e negli streaming. E non è che il meccanismo dell’industria si ferma. Qualcun altro sta già occupando il mio posto.
Lei è molto versatile, in un settore che punta al copia e incolla. Ma se l’intelligenza artificiale spazza via autori e produttori umani con un solo bot?
È una fase rischiosa, confido nella selezione naturale, prima che cibernetica. La differenza la faranno i 21 grammi dell’anima di un artista disposto ad alzare l’asticella, con talento ed esperienza. Una sorta di regista che coordini quelli che operano per lui, come chi dirige un film o una casa di moda. Se su 200 collaboratori, 50 saranno programmi di IA, ci sarà sempre il regista creativo nel cuore del progetto, o almeno mi auguro. In ogni caso, il pubblico non è scemo.
Rimarranno quelli con una visione duratura.
Sta finendo una fase di iperdemocratizzazione. Sono tutti cantanti e producer, anche quelli che stonano senza l’autotune e quelli che non saprebbero suonare una nota, rifugiandosi nei tools del computer. Può darsi che dal conformismo pop attuale nasca per contrasto un’era rivoluzionaria, dove il vero musicista avrà in mano la bussola. È sempre stato così: gli anni 80 erano di un livello bassissimo, i 90 furono formidabili.
E se l’intelligenza artificiale creasse un suo fake, peraltro a costi ridotti?
Vorrà dire che continuerò a cercare me stesso nel pianoforte. È un viaggio psicoanalitico appena iniziato. Non contano la tecnica o l’ego. A 70 anni starò lì a implorare la tastiera di svelarmi i suoi segreti.
Se le porto un gigante della classica nell’aldiqua chi sceglie, per una sonata a quattro mani?
Oggi dico Debussy. Mi sento trascinato verso l’impressionismo, in passato ho avuto il mio periodo romantico. Allora avrei chiamato accanto a me Chopin, Schubert, Schumann.
Ma è di quei sonnambuli che si sveglia d’improvviso e corre a suonare l’idea arrivata nella fase Rem?
Non esattamente. Tre o quattro volte mi è capitato di strapparmi a forza dal sogno pensando: Ehi, questa è buona! Così la canticchiavo allo smartphone, ma il mattino dopo pensavo: bah, tutto qui?
Sarà stata la voce impastata.
Confido nelle mani. Nel pianismo più invecchi e più sei credibile. Da anziano, mi terrò vicino pure qualche sintetizzatore, prima di andare alla bocciofila.