Corriere della Sera, 20 giugno 2023
Su "Napoli stanca. 17 scrittori raccontano la città nascosta" a cura di Mirella Armiero (Solferino)
A pensarci, il fenomeno è difficilmente spiegabile.
Perché il posto ha sicuramente molte peculiarità, tutte variamente spiegabili e tutte raccontabili in molti modi, ma sono contraddittorie e profondamente incoerenti tra loro, così da formare un incomprensibile e inafferrabile caos di suoni e colori e storie: com’è possibile che ci sia questo perenne interesse a carpire le ragioni e le profonde motivazioni di questo infernale disordine? Come, e soprattutto perché dovrebbe essere interessante per qualcuno cercare un principio di comprensione in questa atavica, perenne confusione?
Proviamo a collocarci in un punto di vista narrativo, e consideriamo questa città. Un brulicante formicaio di tre milioni e mezzo di abitanti, l’area più densamente popolata dell’intero continente. Una capitale del sud del mondo, benedetta da una posizione strategica e da un clima ideale, un porto naturale perfetto, una terra proverbialmente fertile e due millenni e mezzo di gente che è arrivata, ha lasciato il meglio di sé e talvolta, non sempre, è ripartita: tutto per essere un paradiso, e invece resta il più difficile e discusso posto del Paese, un far west disperato e in gran parte degradato, denigrato da autorevoli giornalisti e da politici in cerca di consenso, oggetto di cori rabbiosi di curve di stadi e di graffianti polemiche radiofoniche e televisive.
Certo, si potrebbe scegliere di non cercare principi genetici. Di limitarsi a guardarsi attorno e scrivere quello che si vede, singole storie di donne e uomini, all’interno di un paesaggio che è come uno specchio rotto in mille frammenti, che riflettono ciascuno un pezzo di un’immagine mai visibile con completezza. Che è il metodo al quale si attengono in tanti, degnamente portando avanti la narrazione di se stessi e di quello che vedono dall’angusta finestra dalla quale hanno la forza di affacciarsi; ma la tentazione della Weltanschauung metropolitana è troppo cogente, e si ricade nello stucchevole dibattito sui luoghi comuni, talmente tanti nel tempo da essere impossibile sfuggire all’uno o all’altro.
È qui che arriva questo volume curato da Mirella Armiero per Solferino (in libreria dal 23 giugno), con un titolo che è un’ammissione e un proclama nella duplicità del senso che gli si può attribuire: Napoli stanca, verbo o aggettivo non cambia niente o cambia tutto, ambivalenza luciferina che in sé porta un significato e il suo contrario.
Perché se è vero che lo sterile, patetico dibattito su che cosa sia, e che cosa abbia significato questa città e la sua narrazione nella letteratura di questo Paese, nel suo destino di inconcludenza, ha esaurito ogni forza propulsiva, è anche vero che la stessa città non ha più energia nella perenne ricerca di originalità alla quale sembra condannata.
Ci hanno provato in tanti, ci hanno provato tutti. Gli stereotipi elencati da Benedetta Palmieri nel suo furioso e vertiginoso primo pezzo sono solo un breve sommario, ampliabile ad libitum e che induce a un amaro sorriso di autocommiserazione; perché il problema del racconto della città non è all’esterno, dove il voyeurismo esotico dell’etica della giungla fa sì che venga sempre riscosso interesse da parte del popolo nazionale e internazionale di appassionati al comico o al tragico che ci si attende da questa fucina. Il problema vero è quello del racconto a chi in questa città vive, per scelta o costrizione, da parte di chi ci vive, per identità narrativa.
Il gruppo che si mette insieme in questo volume è di per sé una sfida, una specie di piccolo proclama, una subliminale dichiarazione di intenti. Lo spaccato di una nuova generazione di narratori, pronta a prendere il proprio posto sulla tribuna che non è mai stata carente di voci, ma che ha sempre comportato un profondo cambiamento di identità, pure già affermata sul palcoscenico editoriale nazionale. Una pluralità apparentemente perfino dissonante, differenze di linguaggi e di tinte, punti di vista confinanti oppure distanti; e storie, minime e massime, che non potrebbero essere più diverse ma che come spartiti per singoli strumenti possono rientrare in un’unica sinfonia, miracolosamente comprensibile, paradossalmente unitaria.
Succede, in Napoli stanca, un piccolo miracolo al quale siamo tuttavia abituati quando si tratta della narrativa ambientata in questa città: c’è come una nota di fondo, una sintonia spontanea e perciò assurda, che unisce il tutto come un filo rosso.
Cercando di cogliere i principi di un cambiamento che è in atto in forma macroscopica, che probabilmente sì, c’è sempre stato, ma che in questi ultimi anni è diventato fantasmagorico; una trasformazione da agglomerato di sofferenti favelas sommerse di spazzatura e percorse da minorenni armati su scooter giganti a parco dei divertimenti dal greve odore di fritto e ragù, incessantemente attraversato da schiere di stranieri sorridenti con cappellini azzurri e pantaloncini corti.
Questo all’esterno: ma le correnti interne, quelle intime che parlano solo ai nativi, restano comprensibili ai pochi che le sanno ascoltare. E sono tante, talmente tante che vanno raccontate una a una, per colore e sapore, senza concedersi distrazioni.
Napoli stanca è inevitabilmente un racconto polifonico, per frammenti. Ma è anche l’unico possibile, a pensarci bene. Perché se vuoi spiegare a qualcuno che significa davvero la bassa nota che è il rumore di fondo della città di cui dicevamo, puoi solo portarlo virtualmente in giro e farlo affacciare da qualche finestra scelta a caso, camminando in salita per un vicolo o l’altro, seguendo la voce di chi giorno dopo giorno offre il suo punto di vista dalle colonne del più sensibile e indipendente dei quotidiani. Dissonante? Incoerente? Contraddittorio? Certamente. Ma anche potente, accorato, personale e sempre sincero: come un punto di vista deve sempre essere.
Perché se è vero che Napoli è stanca di sé e della sua narrazione, se è vero che stanca chi ci vive e chi ci lavora, è anche vero che resta immortale, ancorché perennemente moribonda, come la sirena che canta disperata dagli scogli sui quali si è arenata, immobile eppure viva per l’eternità.
Perché, per quanto si possa dire e si dica, questo è un luogo imprescindibile. E, come risulta chiaro dalla lettura di ogni singolo racconto, necessario.