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 2023  giugno 22 Giovedì calendario

Il Metoo della pubblicità

Voti e giudizi sull’aspetto fisico. Commenti sessisti, «quella è una f...», battute da caserma, classifiche su Excel, foto in costume da bagno prese dal profilo social della neoassunta e condivise. Con annessi riferimenti sessuali. Sono i contenuti di una chat via Skype tra i dipendenti della nota società di comunicazione We are social, ribattezzata con sdegno social «la chat degli 80». Conversazioni partite da attività tipo il calcetto poi degenerate su altri fronti, a cui partecipavano tutti uomini, dipendenti, di vari settori della società. Messaggi che stanno invadendo in questi giorni i social attirando polemiche e condanne.
La chat venne scoperta dai vertici aziendali nel 2017 e subito chiusa.Ma sono conversazioni tornate di grande attualità ora che il tema delle molestie nel mondo pubblicitario sta emergendo trainato dalle tante testimonianze di donne decise a raccontare le violenze psicologiche e il mobbing subito negli anni.
A lanciare il sasso, due settimane fa, era stato il pubblicitario Massimo Guastini, già presidente dell’Art directors club italiano. In un’intervista via social a Monica Rossi, pseudonimo dietro il quale ci sarebbe un professionista ben inserito nel panorama della comunicazione, aveva denunciato molestie e attaccato frontalmente un nome forte di questo mondo, P. D., ideatore di tante campagne fortunate, accusandolo di essere «un molestatore seriale» didonne. E facendo riferimento a una chat molto spinta tra i dipendenti di una nota agenzia di comunicazione, che in poco tempo si è rivelata essere We Are Social. A quel punto molte ragazze sono uscite allo scoperto denunciando via social un malcostume generalizzato che sarebbe diffuso nel mondo della comunicazione e delle agenzie. Sia un clima pesante che ha spinto molti al burn out – «sappiamo tutti che in agenzia non esistono weekend, ferie e hobby e che il problema è sistemico» – ma anche «un clima di terrore» contro chi ha provato a denunciare atteggiamenti sessisti. Sui social sono stati aperti profili per raccogliere testimonianze anonime di molestie, soprusi e abusi. «Spero che questaesposizione di tutti non voglia significare una caccia alla streghe senza senso ma porti a individuare quali sono i problemi sistemici del settore che portano allo sviluppo di questo tipo di ambienti» scrive sui suoi profili una ex dipendente di We are social in azienda in quegli anni. We are social ha diffuso una nota ufficiale in cui «condanna da sempre qualsiasi forma di discriminazione e atteggiamenti inappropriati. We are social è da sempre impegnata nel creare un ambiente di lavoro sano e inclusivo. La società nel corso degli anni ha messo in atto numerose iniziative con partner qualificati affinché il benessere e la tutela delle persone siano al primo posto».



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«È una storia che ha condizionato la mia vita. E per la quale tuttora sono in psicoterapia. Rivivo spesso la sensazione di pericolo che ho provato in quei momenti, me la sono portata dietro per tutta la vita. Da allora salgo in auto solo con persone che conosco da sempre, che sono due o tre e faccio fatica a fidarmi». Giulia Segalla oggi ha 33 anni. Ne aveva 20, nel 2011, quando era una stagista nel mondo della pubblicità e ha denunciato, ai tempi in forma anonima, di aver subito molestie da parte di un noto pubblicitario, ideatore di campagne molto riuscite, del quale si parla molto sui social in questi giorni. Oggi che la questione delle violenze psicologiche in questo ambiente sta emergendo attraverso diverse testimonianze di ragazze ha deciso di metterci la faccia «e di raccontare tutta la verità con nome e cognome».
Giulia, cosa successe allora?
«Ero una stagista, da poco arrivata a Milano. Una sera decisi di partecipare a un evento di lavoro, lo promossi sui miei social. Questa persona mi contattò per farmi sapere che ci sarebbe stato anche lui, era molto affermato in un ambiente in cui io mi stavo inserendo. Alla fine dell’evento si offrì di accompagnarmi a casa, io mi ero già organizzata con i mezzi ma lui ha insistito. E io ho accettato, pensando di potermi fidare di un uomo di 50 anni che poteva essere mio padre».
Che cosa accadde?
«Mentre eravamo in auto a un certo punto si è fermato in una zona isolata, io non avevo capito. In un attimo me lo sono trovato addosso, ha tentato diversi approcci sessuali. Io ho subito detto di no, che non ero interessata. Ma ero in trappola, sono stata per ore in auto: o uscivo fuori in mezzo ai campi, al buio, o restavo in auto cercando di resistere alle sue avances prendendolo per sfinimento. Ho scelto la seconda strada, per istinto di sopravvivenza. Dopo ore è ripartito e mi ha riaccompagnata verso casa».
Ha subito anche minacce?
«No, però ricordo che mi disse che se mi fossi mostrata
disponibile avrei fatto una certa carriera».
Come si è sentita?
«Ero sconvolta e terrorizzata.
Anche perché poi non ha smesso di cercarmi, voleva convincermi delle sue buone intenzioni anche se il mio disagio era molto evidente, è stato parecchioinsistente».
Ne ha parlato con qualcuno?
«L’ho detto subito al mio capo di allora (il pubblicitario Massimo Guastini, ndr ) che è stato l’unico a darmi una mano e a starmi vicino negli anni. È stato lui a prendere la situazione in mano, a denunciare sui social laquestione, senza fare il mio nome per proteggermi. Tutti nell’ambiente ne parlavano, anche con un certo sdegno».
Ci sono state reazioni o manifestazioni di solidarietà?
«Purtroppo no, e questa cosa mi ha sconvolta. Il messaggio che mi arrivava era che dopotutto non era così grave. Sono stata lasciata da sola, se non per il mio capo.
Nessuno si è chiesto come stesse la persona che stava dietro questa vicenda».
Cosa fece dopo?
«Ho retto un anno, poi il peso di questa situazione mi ha portato a non sostenerla più e a cambiare città. Avevo paura di trovarmelo dappertutto. Da allora fatico a fidarmi delle persone, anche se mi veniva naturale. Quest’anno sono stata invitata a un evento in cui sapevo ci sarebbe potuto essere anche lui, e solo l’idea di doverlo incontrare mi fa stare male».
Come mai allora non denunciò alle autorità?
«Me lo chiedono in tanti. Ma come tante altre ragazze con cui mi sono confrontata poi avevo paura di essere esclusa dal contesto professionale, di essere messa alla gogna, di ritorsioni.
Mi muovevo in un contesto malsano di cui solo ora stanno emergendo i contorni. E il contesto socioculturale attorno a me non mi ha supportata. Anche se tuttora continuo ad avere paura, so che devo dire tutta la verità».
Lei ha continuato a lavorare nel mondo della pubblicità?
«Si, sono una free lance, lavoro lontano da Milano. C’è molta omertà nelle agenzie pubblicitarie, anche se non credo sia un problema solo di questo settore.
Ci ho messo tempo per elaborare l’accaduto, ma ancora oggi quando ne parlo mi sento in pericolo».