La Stampa, 21 giugno 2023
Il Medioevo e il fango
Nelle settimane da poco trascorse ne abbiamo visto tanto di fango in tv: fango reale, non quello metaforico gettato di volta in volta sull’uno o sull’altro antagonista politico. Fango vero e proprio spinto fuori dalle case, accumulato per le vie, afferrato da bracci meccanici per raccoglierlo nei camion. Vedendo quelle immagini mi è venuto in mente il notaio del fango incaricato nel Medioevo di controllare il rispetto delle norme igieniche che prevedevano anche lo smaltimento dei fanghi. In strade raramente selciate bastava una pioggia abbondante a produrre una gran quantità di fango. Le autorità comunali con appositi provvedimenti ordinavano che ciascuno dovesse far levare davanti alla facciata della sua abitazione tanto il fango come ogni altra sporcizia. Ciò nel nome dell’igiene e del decoro della città perseguiti tramite regole e controlli, il che risulta inatteso a chi continua ad avere del Medioevo un’idea negativa preconcetta.A Bologna la magistratura tenuta ad agire in questo campo, e responsabile del trattamento del fango e di altre lordure, era denominata “Ufficio delle acque, strade, ponti, calanchi, seliciate e fango”. Un intero libro degli Statuti bolognesi del 1288, il X, si occupava dell’igiene e del decoro della città. E ciò non si registrava solo a Bologna o solo nell’Italia centro-settentrionale, basti pensare che le Costituzioni di Melfi, emanate da Federico II nel 1231, sono di fatto la prima raccolta organica di leggi sanitarie del mondo occidentale e in esse si affrontava anche il tema delle lavorazioni inquinanti. Già nel Duecento i governanti cittadini hanno affrontato la materia decentrando le attività insalubri e trasferendole in un’unica area. Sta di fatto che nel XIII secolo era chiara la relazione fra degrado ambientale e certe lavorazioni artigianali nocive quali quelle della canapa, del lino o del cuoio.Nel 1252 il Comune di Bologna concentrò fornaci, fucine, concerie, cartolerie e tintorie sui rami del fiume Savena a sud della città. A Rimini lo statuto promulgato nel 1334 stabiliva che i conciatori di cuoio non potessero cucire, radere, spellare o conservare pelli non ancora conciate negli androni della città o del borgo. Gli statuti comunali di Treviso vietavano la lavorazione del cuoio nel centro cittadino a causa del fetore nauseabondo. Nello statuto di Arezzo del 1327 si stabiliva che i conciatori non potessero trattare le pelli all’interno delle mura antiche della città; potevano farlo all’esterno in aree non abitate. Gli Statuti della città dell’Aquila del 1315 affrontavano la questione con norme probabilmente assai risalenti giacché la città era da tempo interessata alla lavorazione e al commercio del pellame.Da ciò si ricava la consapevolezza che lo sviluppo di nuove lavorazioni foriere di vantaggi per i diversi gruppi artigianali andava controllato senza inibire gli interessi dei produttori ma nel rispetto della vita collettiva nel nome di una concezione della città come bene pubblico da tutelare nell’interesse generale. Sta di fatto che le norme in materia di igiene e di decoro (perché anche di quello si occuparono i legislatori medievali) fondarono, o almeno intesero farlo, una mentalità della composizione delle esigenze private e pubbliche, accogliendo il nuovo e cercando di governare interessi diversi quando non contrastanti. Città sempre più popolose e gruppi sociali attivi e partecipi alla vita politica ponevano sempre nuovi problemi che esigevano politiche innovative e costanti verifiche anche valendosi della partecipazione al controllo da parte dei cittadini con denunce sollecitate e premiate.Le autorità comunali non si sono occupate solo dello smaltimento dei rifiuti e della salubrità dell’aria e dell’acqua ma anche di decoro e di immagine. A Bologna, ad esempio, hanno saputo accogliere un’innovazione nata in ambito privato e trasformarla in una risorsa pubblica: il riferimento è ai portici entrati nel 2021 a far parte della lista del patrimonio Unesco. Si è trattato di un’ideazione, volta a sfruttare al massimo lo scarso spazio, che i governanti hanno accolto e trasformato in una caratteristica della città. Il primo riferimento a una casa con portico risale al 1091 e lo si ricava da un contratto d’affitto nel quale si specifica che il suolo del portico faceva parte dell’immobile, non della strada, ed era quindi di proprietà privata ma di uso pubblico: una caratteristica che vale ancora oggi. I portici presentavano molti vantaggi e a fronte dell’operazione spontanea di prolungare all’esterno i solai dei primi piani, le autorità elaborarono disposizioni per disciplinare la materia ed evitare crolli e disastri. In poco tempo il portico si trasformò in un elemento di decoro fortemente voluto dalle autorità che dapprima intervennero a regolamentarne l’uso, vietando ad esempio nel 1250 di ingombrarlo con elementi fissi o mobili che impedissero la circolazione a piedi o a cavallo, per poi renderlo successivamente obbligatorio: tutte le case dovevano avere un portico.Nell’"oscuro Medioevo” si è saputo guardare avanti, accogliere, osare, disciplinare e consegnare a noi “moderni” molto più di quello che siamo disposti a riconoscere. In quest’ottica, gli incontri che si terranno all’Aquila in occasione del Festival delle città del Medioevo da oggi al 25 giugno si prospettano come un’occasione per superare preconcetti e acquisire informazioni ma anche per fare confronti e, perché no, trarre qualche spunto dalle esperienze fatte nelle città medievali vivaci, conflittuali e a tal punto propositive da averci consegnato centri urbani il cui volto, caratteristico e consapevolmente progettato, è quello che ancora oggi ammiriamo: anche all’Aquila che sa rinascere e recuperare orgogliosamente i segni (e la conoscenza) del suo passato.