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 2023  giugno 21 Mercoledì calendario

Intervista a Valerio Lundini

«Ho fatto giurisprudenza per tre anni e per me è stata la cosa più difficile del mondo, tuttora non ho capito nulla di quello che ho studiato, l’enfiteusi e l’usucapione sono concetti che non saprei applicare alla vita vera. Sono stati tre anni drammatici, li ricordo come un periodo che cancellerei. Peggio del lockdown. Ho perso più tempo in quei tre anni là che durante il Covid». Il gusto del paradosso, il tono del surreale, lo sguardo onirico sul reale sono la cifra della comicità di Valerio Lundini . Del resto, dimmi con chi lavori e ti dirò chi sei: ha cominciato con Nino Frassica e ha continuato con Lillo e Greg («è stato facile, ci piacciono le stesse cose»). Ha appena finito di girare l’Italia con il suo spettacolo (in apertura ricorda che è severamente vietato fumare crack all’interno del teatro...), Il mansplaining spiegato a mia figlia, titolo ossimoro, che per altro non ha nessuna attinenza con il contenuto dello show («E poi non ho più una figlia, è morta di Covid. C’è chi ha perso il lavoro, a me è andata meglio»). Sempre leggero: «Sono appassionato di musical nonostante sia serenamente eterosessuale».


Come è arrivato al gusto per lo sguardo dispari e trasversale?
«Alle elementari, quando ho visto Una pallottola spuntata con Leslie Nielsen. Lì ho intuito che si potevano fare cose estremamente divertenti pur rimanendo dignitosi, senza essere dei clown, senza fare gli scemi o le smorfie. Leslie Nielsen era un tipo di attore che poteva tranquillamente recitare in un western o in un poliziesco e invece faceva questo tenente esilarante, eppure rispettato dai colleghi e ambito dalle donne».


Che comicità le piace?
«Non ho mai amato la comicità dove quello che fa ridere è un cretino, mi piace che lo sia senza che se ne accorga nessun altro. In un certo senso la stessa cosa si può dire di Nino Frassica: sbaglia le parole, spara cazzate ma nessuno gli dice che è un cretino. Idem Totò: era sempre sicuro di sé, non esprimeva mai goffaggine ma una sicumera quasi antipatica nell’essere fuori controllo».


Quando ha capito che sapeva far ridere?
«È nato per caso, non avevo intenzione di far ridere nessuno per lavoro. È cominciato con la band con cui suono dalla fine del liceo, l’intento era suonare canzoni anni 50 e 60, ma tra un brano e l’altro abbiamo iniziato a dire qualche scemenza. Divertivano il pubblico, ma non c’era l’ansia da prestazione, nessuno pretende che una band ti faccia ridere. Sparavamo cavolate, finché con il tempo sono diminuite le canzoni e aumentate le cavolate. Siamo finiti a fare concerti che avevano due canzoni e introduzioni lunghe tre quarti d’ora».


Uno pensava di vedere un concerto invece era uno spettacolo comico.
«Io ho sempre puntato vigliaccamente sull’aspettativa bassa. Facevo la stessa cosa anche nei contesti letterari. Scrivevo fumetti e racconti surreali e li leggevo in posti dove tutti portavano poesie drammatiche. Nessuno mi conosceva, tutti si aspettavano l’ennesimo piagnisteo invece li sorprendevo con una cosa strana. La responsabilità grande purtroppo è adesso, non c’è più l’effetto sorpresa».


Nel frattempo studiava Legge...
«Sono cresciuto tardi, non sapevo cosa fare, pensavo di studiare qualcosa di sicuro, perché le velleità artistiche sono aleatorie, i percorsi artistoidi sono un rischio. A Legge ho dato quattro esami ma in tre anni, ho passato mesi e mesi a studiare Diritto Privato uno e due senza passarlo».


Poi ha virato su Lettere.
«Ma solo per procrastinare la fine dell’adolescenza».


Il suo gruppo musicale si chiama I VazzaNikki.
«Il nome ce lo aveva dato Greg. Lui ha diverse band in giro per Roma, frequentavamo gli stessi locali e ci conoscevamo».


Che vi aveva fatto Iva Zanicchi di male?
«Niente, era semplicemente un gioco di parole, “i” articolo, VazzaNikki come fosse un sostantivo, il plurale di VazzaNikko. Non è né un omaggio né una derisione, solo un gioco di parole. Come se fosse I VanoFossati o I ReneGrandi».


«Una pezza di Lundini» è diventata un piccolo cult: è definitivamente archiviata?
«Io già dopo la prima stagione avevo detto basta, perché ho sempre paura di peggiorare le cose. Poi alla terza è stato giusto fermarla, almeno per un po’. Il rischio è che nel migliore dei casi una nuova stagione sia troppo somigliante alle precedenti. Quindi mi sono detto: perché rischiare di fare l’ennesimo Indiana Jones? La gente a volte chiede che si facciano sequel, nuovi capitoli di un prodotto e poi con lo stesso entusiasmo gli affossano. Io non gliela do questa soddisfazione».


Nel programma sfoggiava un look da giovane vecchio...
«Nasceva dall’esigenza di far sembrare che il programma fosse vero, avesse un aplomb istituzionale. E se qualcuno ci cascava per me era un bene. Se mi fossi presentato con la maglietta di Burt Simpson il programma avrebbe perso credibilità in partenza».


È vero che il comico ha sempre un lato malinconico? Per dirla alla Marzullo: è una tragedia essere comico?
«Bah. È un lato poetico che piace, sicuramente c’è chi ce l’ha: Robin Williams ci si è ammazzato, ma c’è pure chi sta una bomba. Van Gogh si è suicidato e non era un comico. Un altro stereotipo a cui non credo è quando si dice che è più facile far piangere che far ridere. Se io avessi fatto uno spettacolo di un’ora e mezza con l’intento di far piangere le persone, fidatevi che non ci sarei riuscito. Né io né Aronofsky».


I social?
«Sono tipo droga. Nei nostri cellulari ormai c’è tutto l’intrattenimento del mondo, disponibile 24 ore su 24 su un oggetto che puoi consultare mentre stai al bagno. È morta la noia. Tutti — io in primis — si divertono a postare, tutti lo fanno ma a nessuno gliene frega niente di quello che mettono gli altri perché sono foto, immagini, di cui non resta niente».