Corriere della Sera, 21 giugno 2023
Biografia di Piercamillo Davigo
«Se mi sono pentito? No, rifarei tutto quello che ho fatto, e nel modo in cui l’ho fatto. Perché era l’unica cosa giusta da fare in quella situazione». Piercamillo Davigo lo rivendicava alla vigilia della sentenza, e dunque, adesso che la condanna è arrivata per davvero, c’è da giurare che, quasi più dei 15 mesi inflittigli, all’ex pm di Mani pulite bruci l’offrire il destro al ghigno ribaldo di chi, sfottendolo nel rimarcare quanto «resti innocente fino al terzo grado di giudizio», da tre decenni non aspettava altro che potergli rinfacciare tutto il copione delle sue gag da talk show. Quelle false attribuitegli («rivolteremo l’Italia come un calzino»), quelle mezze false perché brutalizzate nella caricatura fuori contesto («non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti»), quelle da copione consunto («se il mio vicino di casa è stato condannato solo in primo grado per pedofilia, io per omaggio alla presunzione di innocenza gli affido mia figlia di 6 anni da portare a scuola?»), e quelle più vere ma guarda caso meno ascoltate («la politica dovrebbe riformarsi prima delle sentenze per non far dipendere la propria legittimazione dai magistrati»).
Astronomo mancato nei vagheggiamenti pavesi di bambino a Candia Lomellina, nonno segretario comunale, padre rappresentante di commercio, mamma impiegata nella società dei telefoni dell’epoca (la Stipel), dal servizio militare come ufficiale passa in Confindustria a curare le relazioni sindacali, cioè a fare (per dirla come lui) «il sindacalista dei padroni». Del resto, se l’accusa di «toga rossa» ai pm del pool Mani pulite di trent’anni fa appariva già spericolata, ha sempre fatto proprio ridere se rivolta a uno che come Davigo non solo disse no a Ignazio La Russa che gli offriva un posto da ministro nel primo governo di Silvio Berlusconi, per giunta spendendosi con Di Pietro affinché anch’egli rifiutasse l’offerta; ma che soprattutto non ha mai fatto mistero di essere «essenzialmente un uomo d’ordine», convinto che sia «difficile fare il magistrato se non si crede nel binomio che nel mondo occidentale è lo slogan della destra, legge e ordine». Inizia a farlo nel 1978 mentre l’Italia è tra il rapimento e l’omicidio Moro, fa un periodo di uditorato con Emilio Alessandrini (ucciso nel ’79 da Prima Linea), resta fulminato da Francesco Saverio Borrelli e cementa con il suo futuro procuratore un’intesa duratura quando l’allora giudice Borrelli, in mezzo a colleghi che si buttano in malattia per schivare i processi ai brigatisti, rientra in servizio pur con la gamba fratturata per celebrare il processo al br Corrado Alunni. All’opinione pubblica diventa familiare nel 1992-’94 nella formazione titolare del pool Mani pulite con Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e poi Francesco Greco, ma in fondo lì Davigo non è granché diverso dal magistrato di prima nomina che a Vigevano anni prima aveva chiuso l’ufficio Iva di Pavia arrestando 29 dei 30 impiegati. Nella ripartizione dei ruoli sviluppa tra gli altri il filone delle tangenti alla Guardia di Finanza, e riceve il compito di scrivere le centinaia di richieste di autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari. Esauritosi lo tsunami di Mani pulite, la seconda vita di magistrato lo vede passare da pm a giudice (prima consigliere in Cassazione e poi presidente di sezione), e darsi all’impegno associativo (sino a presiedere per un anno l’Anm) in una nuova corrente che fonda uscendo da Magistratura Indipendente per dare vita a Autonomia & Indipendenza assieme a Sebastiano Ardita: cioè proprio al collega ed ex amico che ora dovrà risarcire dei danni stimati dal Tribunale bresciano nelle divulgazioni in seno al Csm dei verbali di Amara, talvolta accompagnate da ammiccamenti alla possibilità di cautelarsi dal fatto che davvero Ardita potesse essere tra gli affiliati alla «loggia Ungheria» indicati da Amara.
Un verdetto che ieri Davigo ha accolto con il pensiero a uno dei suoi ricordi preferiti, la lapide che a Potsdam ricorda il mugnaio che, rifiutandosi di cedere a Federico II il mulino sul quale il sovrano voleva costruire un castello, e da questi minacciato, gli oppose il proverbiale «Fate voi maestà, ci sarà un giudice a Berlino». «Perse la causa in primo grado – ama aggiungere Davigo —. Ma vinse in appello. E il mulino è ancora lì con la lapide».