La Stampa, 21 giugno 2023
Intervista a Michele Placido
Non perdere mai l’abitudine di guardarsi intorno e di considerare quello che accade ogni giorno, sotto i nostri occhi, mentre siamo impegnati a fare altro. Per tutta la vita, iniziata nel ’46 a Ascoli Satriano, Michele Placido si è impegnato a smentire il suo cognome, perché tranquillo non è mai stato, nelle scelte di vita e nelle dichiarazioni a viso aperto: «Si paga sempre il prezzo della libertà di pensiero, io però sono convinto che si debba andare avanti in nome di ciò in cui si crede, confrontandosi con gli altri, anche se hanno una visione diversa». Ai successi di quest’anno, dopo il David Giovani, si aggiunge il Nastro Speciale dei Giornalisti Cinematografici Italiani che premia il suo ultimo film L’ombra di Caravaggio e la prova da protagonista in Orlando di Daniele Vicari. Mentre si prepara a fare l’ospite d’onore al Bardolino film festival, ripercorre una carriera iniziata all’alba degli Anni 70, nei film dei grandi del cinema italiano, da Luigi Comencini a Mario Monicelli, e poi esplosa in tv grazie al successo della Piovra, la madre di tutte le serie sulla mafia, dove nei panni del Commissario Cattani, riuscì a mobilitare, nella puntata in cui sarebbe morto, oltre 17 milioni di telespettatori.
Una grande soddisfazione, anche se lei ha sempre detto che c’era stato un rovescio della medaglia. È vero?
«Sì, La Piovra è stato un successo clamoroso, internazionale, ma io, proprio a causa di quella fiction, sono stato a lungo snobbato da una certa critica. Ci sono registi che nascono consacrati e poi vanno avanti in ogni caso, anche se al botteghino soffrono».
Nell’«Ombra di Caravaggio» risuonano echi di attualità. In che cosa l’Italia di quei tempi è simile a quella di oggi?
«L’Italia di allora, come adesso, esprime cultura di altissimo livello. Ai tempi di Caravaggio succedeva che, mentre si costruiva la Cappella Sistina e a Roma convergevano i pittori migliori dell’epoca, gli intrighi politici erano fitti e le battaglie religiose imperversavano, basta pensare allo scontro tra chiesa cattolica e anglicana. Anche ora nel conflitto tra Russia e Ucraina il clero russo e quello ucraino spingono i fedeli a dare l’appoggio ai rispettivi leader, mentre la nostra chiesa cattolica cerca la pace, insomma, tuttora, in Europa, c’è un gran subbuglio politico e clericale».
Alla recitazione lei ha sempre unito la passione per il sociale. Perché?
«Un artista deve sempre informarsi, sapere, leggere su quello che accade, il sociale mette alla prova la sensibilità di noi artisti. Il cinema e il teatro possono dare una grossa mano alla riflessione sui temi più importanti. Per esempio so che Matteo Garrone ha appena girato un film bellissimo, riguardante proprio le problematiche politico- sociali che mettono in crisi l’Europa. Anche nell’ultimo, gravissimo, episodio dei cento bambini morti nel naufragio pesa la negligenza europea. Non c’è condivisione, l’Italia è stata lasciata sola, il problema non è italiano, ma europeo. Oggi ho letto che Macron e Meloni finalmente hanno firmato un accordo per accelerare i tempi delle soluzioni, finora succedeva che Francia e Germania continuavano solo a respingere i migranti, il punto è che tutti devono farsi carico della questione».
Come sceglie le cose da fare in questo momento della sua carriera?
«Le scelte dipendono sempre dal vissuto. La mia è l’età delle riflessioni, quella in cui, come diceva qualcuno, si devono fare i conti con il tempo che resta. Il mio prossimo impegno è un film su Pirandello e sui segreti della sua famiglia. È stato un fascista, accademico d’Italia, ma non è mai riuscito ad accordarsi con la sensibilità politica di quel periodo. Nei suoi ultimi giorni c’è stato un colpo di scena, Pirandello fece una grande scelta, con cui ha sconfitto quel fascismo di cui era sempre stato accusato dai suoi oppositori, a iniziare da Benedetto Croce. Durante il viaggio attraverso l’Italia, per recarsi a ritirare il Nobel, lui, eterno visionario, vide la povertà del nostro Paese, la sofferenza, i bambini sfruttati nelle miniere, le condizioni di vita degli operai siciliani. Tutto questo alla vigilia dell’alleanza tra Hitler e Mussolini. Anche questi sono tempi contemporanei».
Qual è stato l’incontro più importante della sua vita professionale?
«Quello con Marco Bellocchio, che mi volle in Marcia trionfale quando ero poco più che un ragazzino. Mi ha fatto capire l’importanza etica e morale del cinema. Marco è il mio grande maestro e lo è tuttora, sono onorato della sua stima».
Ha rimpianti?
«Vengo da un piccolo paese del Sud, eravamo otto figli, mio padre è stato un geometra disoccupato. Quando sono entrato all’Accademia mio padre provò un enorme orgoglio, andò in piazza urlando "mio figlio è entrato nella stessa scuola della figlia di Vittorio Gassmann, di Nino Manfredi, di Carmelo Bene". Lo guardarono tutti, dicevano "l’ingegnere è diventato pazzo". Purtroppo è morto giovane, a 50 anni, e non mi ha mai visto né sul palcoscenico, né sullo schermo, questo è il mio rimpianto».
Nel discorso di ringraziamento ai David lei ha ironizzato dicendo "Placido ha il Parkinson". Perché l’ha pronunciata?
«Sa come siamo noi artisti? Eravamo arrivati alla fine di una premiazione lunga, ero scivolato sul fondo della poltrona, riflettevo… sul palcoscenico ho scherzato. Ci sono cascati in tanti, il giorno dopo mi hanno chiamato amici, colleghi, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa. Gli ho detto di non preoccuparsi, non ho bisogno di niente, solo di me stesso».