La Stampa, 21 giugno 2023
Davigo condannato
Ha incarnato l’immagine del pool di Mani Pulite. È stato il simbolo della lotta a corruzione e corruttori. L’odiato e criticato censore dei costumi della politica. Eppure i quarantadue anni in cui ha servito la giustizia «con disciplina e onore» alla fine sono stati «sporcati» da un processo per un’accusa che lui stesso ha sempre definito «infondata».
Piercamillo Davigo è stato condannato dal Tribunale di Brescia a un anno e tre mesi con pena sospesa per rivelazione del segreto d’ufficio. Per aver fatto circolare, all’interno del Consiglio superiore della magistratura, i verbali segretati dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, sulla fantomatica loggia Ungheria: l’ultimo grande scandalo che ha travolto la magistratura.
Senza attendere le motivazioni della sentenza, tramite i legali, Davigo annuncia: «Faremo ricorso». E la Corte d’Appello magari riscriverà la storia. Ma la macchia di questa condanna pesa nella carriera di un magistrato spesso considerato un integralista del rapporto tra etica e giustizia. Ora saranno molti i detrattori a sorridere. Una situazione che turba tanti colleghi, preoccupati anche per gli effetti che la sentenza può avere sulla stessa immagine della magistratura.
Davigo non è in aula quando il presidente del collegio, Roberto Spanò, legge il dispositivo: al termine dell’ultima udienza aveva annunciato la sua assenza. «È senza dubbio un errore giudiziario», taglia corto l’avvocato Francesco Borasi che lo assiste con il professore Domenico Pulitanò: «Aspettiamo di leggere le motivazioni».
I fatti risalgono ai primi giorni dell’aprile del 2020, quando il pm milanese Paolo Storari si rivolge a Davigo, all’epoca consigliere del Csm, per lamentare un presunto immobilismo dei vertici della procura di Milano (le indagini aperte sull’ex procuratore Francesco Greco e sull’aggiunta Laura Pedio nel frattempo sono state archiviate), davanti alle dichiarazioni rese tra il dicembre e il gennaio precedenti dall’avvocato Amara. Nel corso di una serie di interrogatori, aveva raccontato dell’esistenza di una loggia massonica segreta, simile alla P2, che avrebbe raccolto magistrati, politici, prelati del Vaticano, imprenditori, finanzieri, tra le più alte cariche dello Stato.
Così Storari (assolto con sentenza passata in giudicato ma che ora dovrà affrontare il procedimento disciplinare) consegna a Davigo, nel suo appartamento milanese, alcuni verbali di Amara in formato word. Davigo lo rassicura, dicendo che in quanto membro del Csm, a lui non è opponibile il segreto investigativo. Per l’accusa, «mente e lo induce in errore».
Il mese successivo, il magistrato ora in pensione li porta al Csm. Li fa vedere o ne parla con una decina di persone tra membri del Csm, l’allora procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, l’ex presidente grillino della commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra. E anche alle segretarie, Marcella Contraffatto e Giulia Befera. Un «corvo» li fa circolare: per l’accusa proprio Contraffatto che poi sarà prosciolta. Finiscono nelle mani di alcuni giornalisti, del consigliere del Csm Nino Di Matteo che, il 28 aprile del 2021, denuncia tutto davanti al Plenum. Esplode uno scandalo difficile da arginare.
Davigo ha sempre spiegato di aver agito per dare una scossa a una situazione che riteneva «inaccettabile»: il denunciato ritardo nell’apertura di un fascicolo d’inchiesta a Milano sulla presunta loggia Ungheria. Proprio in nome di quelle indagini necessarie che con il suo comportamento, per l’accusa della procura diretta da Francesco Prete, avrebbe «danneggiato». Per i pm Donato Greco e Francesco Milanesi, che hanno chiesto una condanna a un anno e quattro mesi, «Davigo si è erto a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire era stata violata. Ma l’unica legalità violata è quella nel salotto di casa sua, dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po’ di tempo sono finiti sui giornali», hanno scandito nel corso della requisitoria.
Per l’avvocato di parte civile, Fabio Repici, avrebbe agito con lo scopo di colpire e calunniare il suo assistito, Sebastiano Ardita, ex collega con cui Davigo era entrato in contrasto, e che nei verbali Amara annoverava tra i presunti massoni della loggia Ungheria. Tant’è che i giudici lo hanno condannato anche a pagare 20 mila euro di risarcimento dei danni procurati ad Ardita. «Questa era l’unica sentenza possibile. Solo nel nostro Paese si pensa che un reo confesso possa ottenere un’assoluzione», è il commento dell’avvocato Repici.
Restano da capire le ragioni della sentenza: le motivazioni saranno depositate dai giudici ai primi di luglio.