la Repubblica, 21 giugno 2023
Ritratto di Piercamillo Davigo
Non si può mettere in dubbio l’onestà, nel senso di incorruttibilità, di Piercamillo Davigo, magistrato in pensione. A uscire ammaccata dalla condanna di ieri è invece la sua onestà intellettuale, il suo sentirsi un cavaliere senza macchia e senza paura, capace di distinguere inesorabilmente il bene dal male. Condanna, per “rivelazione e utilizzazione di segreto”, a un anno e tre mesi.
Affermare che il bastonatore è finito bastonato non sarebbe corretto. Davigo, sempre uguale a se stesso nei decenni, ha cambiato stile quando, lasciando il lavoro alla corte di Cassazione, è entrato nel Consiglio superiore della magistratura. C’è tra i magistrati chi, stando nelle supreme corti, sbadiglia e lascia impolverare i fascicoli. E c’è chi, come appunto Davigo, si portava le sentenze da scrivere anche al mare. Uno che si piazza sotto le tettoie di canne, guarda l’orizzonte ondoso per pochi secondi e si spacca la schiena finché non ha finito.
Aveva il record delle sentenze scritte e anche del minor tempo impiegato a scriverle. Era quello che una volta si definiva “stacanovista”, lo è sempre stato, come è sempre stato un ottimo “secondo”. Nel senso che era un “primo della classe” («Chiedi a Davigo se hai dei dubbi» era la frase che circolava). Non gli interessava però primeggiare in pubblico, gli bastava farlo in privato. L’applauso della folla non gli piaceva, almeno all’inizio. Lo trovava eticamente sbagliato («Non condivido questo entusiasmo, noi facciamo solo il nostro dovere secondo la legge »), ma i complimenti tra togati lo ringalluzzivano. Avevano cominciato a chiamarlo “il dottor Sottile”: intelligenza affilata dalle pagine dei codici.
Una delle più serie operazioni anticrimine avvenute in Italia fu quella che venne organizzata a Milano da Francesco Di Maggio contro la gang di Angelo Epaminonda detto il Tebano. Siamo nei primi anni Ottanta. Epaminonda confessò 44 omicidi, raccontò nei dettagli traffici di droga e lotte tra banditi, è stato l’ultimo boss di Milano. Ma l’inchiesta arrivava sin dentro i partiti, con uomini influenti della Dc e del Psi che appoggiavano due diverse cordate di mafiosi che si contendevano il casinò di Sanremo (sembra fiction, è storia).
Se Di Maggio era il front-man, erastato Davigo a compulsare moltissime informazioni, a orchestrare i riscontri agli interrogatori. E a farsi un’idea più precisa sul potere oscuro che in questo Paese sa come camminare accanto al potere politico.
Lo stesso schema d’azione venne replicato quando Antonio Di Pietro, solitario e in solitaria, ottenne la cattura di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Chiesa cominciò a parlare, le confessioni si moltiplicarono, il sistema dei partiti si avviava al collasso e il saggio procuratore capo Saverio Borrelli affiancò a Di Pietro altri colleghi: il felpato Gherardo Colombo, il flemmatico Francesco Greco e l’enciclopedico Davigo. Di Pietro e Davigo, che provenivano dalla provincia contadina (molisana e Lomellina) e avevano diplomi tecnici, si erano trasformati nel ’92 in una vera coppia di fatto: due menti e due braccia sempre d’accordo.
Di Pietro più abile negli interrogatori, Davigo preciso con le carte: erano sue le richieste di autorizzazione a procedere contro i parlamentari che via via venivano travolti da “Mani Pulite”. Sono documenti inoppugnabili: e infatti contro le continue falsificazioni della realtà delle corruzioni di Tangentopoli, Davigo s’è molto speso in prima persona. Più passavano gli anni, specie quelli nel Csm, più la sua vena virava però non nella ricostruzione, ma nella battuta a effetto e nella ridicolizzazione dell’avversario. Non più un samurai del diritto penale, ma una specie di Vittorio Sgarbi delle toghe.
È stato per la sua legittima fama di “dottor Sottile” che il più giovane magistrato Paolo Storari, nel chiedergli un consiglio, gli ha passato le carte di un’inchiesta sdrucciolevole. Quella intorno all’Eni, alle tangenti per il petrolio, ai depistaggi e alla presuntissima loggia massonica Ungheria, con magistrati, politici e militari corrotti. Il caso è esploso, Storari è stato assolto, ma Davigo no: e se pure ha creduto di poter avere legittimamente (?) le carte di un’inchiesta in corso, avute quelle carte, le ha mostrate a troppe persone. E così per la prima volta si ritrova nei panni del condannato il magistrato che, esagerando con il sarcasmo, ai tempi diceva che «non ci sono innocenti, ma solo colpevoli da trovare». Panni scomodi; anche se nessuno (altra sua battuta) «fonderà la chiave» di una cella.