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 2023  giugno 21 Mercoledì calendario

Calvino racconta Pavese

Risvolto di “Cesare Pavese, Lettere 1945-1950”, a cura di Italo Calvino, Einaudi 1966, ora in Il libro dei risvolti. Note introduttive, quarte di copertina e altre scritture editoriali, a c. di L. Baranelli e C. Ferrero, introduzione di T. Munari, Mondadori 2023.



Negli anni dal 1945 al 1950, Pavese scrive Dialoghi con Leucò, Il compagno, Prima che il gallo canti, La bella estate, La luna e i falò ,i saggi sul Mito ; contemporaneamente, vive giorno per giorno la vita d’una casa editrice alla quale fanno capo personalità diverse ma tutte prese dalla smania di veder nascere dalle macerie della guerra un rinnovamento della cultura (e lui che lì in ufficio fa la parte di quello che manda avanti la macchina, che chiacchiera poco, che si sobbarca qualsiasi lavoro ma esige che gli altri siano puntuali); contemporaneamente, realizza la collana “Etnologica”, attraverso un mare di letture d’antropologia e di storia delle religioni antiche, un assiduo accanimento a procurarsi i testi, a discuterli con Ernesto De Martino, a farli tradurre e rivederli; in più, partecipa, sia pure un po’ a soprassalti, alle battaglie per una nuova letteratura italiana, attende autori nuovi che non esistono ancora, li incoraggia e ammonisce e bistratta, e con Vittorini un po’ si sente alleato, un po’ fa il bastian-contrario, e con tutti gli altri scrittori si chiude come un istrice; in più, imposta e segue verso per verso una traduzione dell’ Iliade ; in più, milita — pur senza mettere mai il naso fuori dal suo studio — nella politica, e talvolta riesce a identificare la propria burbera tempra con la tensione di guerra fredda che c’è intorno, e s’accorge presto che le battaglie più accanite e continue sono quelle all’interno del proprio fronte, ma non per questo addolcisce la sua grinta verso i fronti avversari.
Tutto questo, scrivendo lettere, parecchie lettere al giorno, rapidissimo, in ufficio, sul rovescio di vecchie bozze, alternando alla concretezza del manager il piglio disinvolto dell’uomo di mondo e la causticità dell’epigrammista. Si direbbe che, arroccato dietro la sua scrivania di corso Re Umberto, Pavese abbia finalmente raggiunto un suo equilibrio esistenziale e intellettuale, si sia costruito una corazza, abbia incanalato il suo rovello a far da forza motrice d’un lavoro caparbio, lasciandosi dietro le spalle — in un’ultima crisi verso la fine del ’45 — le disperazioni giovanili, l’incertezza di sé, e ormai possa giudicare il mondo con lo sguardo del saggio, ammonitore e un tantino beffardo.
Invece, a un certo punto, il quadro muta, un periodo di curiosità e movimento s’apre per lo scrittore che si sente per la prima volta riconosciuto. Pavese accetta la sua figura “pubblica”: e non solo smantellando il sistema di austere idiosincrasie di cui s’era circondato (non viaggiare, non farsi fotografare, non accettare premi ecc.) ma pure non tirandosi più indietro dagli interventi della cultura militante: scrive articoli polemici sui giornali di partito, partecipa alla fondazione d’una rivista di dibattito ideologico “non ortodosso”.
Ora che ha esplorato l’atemporalità della preistoria, sembra pronto a vivere il proprio tempo in tutte le sue implicazioni. Alla svolta di quel 1950 che ci appare già una data d’altro secolo, s’intravede come uno scorcio di quella che sarà un’epoca più tarda, l’Italia tra soddisfatta e nevrotica degli anni ’60, dei “successi letterari”, della “cultura di massa”, dell’ideologia che cerca di rifare i suoi conti dal principio, dei soprassalti della coscienza tra la speranza d’un rimborso ai patimenti della giovinezza e il rifiuto di tradire se stessi estremizzato in negazione nichilista.
Il tutto con una guerra che incombe all’orizzonte dell’Asia. Questa temperie per Pavese prende ilvolto di due sorelle americane che sono a Roma a fare il cinema. S’innamora della più giovane, ma comunica e si confida soprattutto con la maggiore, anche se ciò che si chiede da lui è che scriva e firmi soggetti di film apposta per loro. L’epistolario documenta quasi giorno per giorno il precipitare della crisi.
Le lettere diventano una serie di preannunci di morte. Il breve 1950 di Cesare Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara.
Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.


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