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 2023  giugno 20 Martedì calendario

Marco Benedetto contro Berlusconi

Silvio Berlusconi non ce l’ha fatta: voleva essere immortale, poi si sarebbe accontentato di 150 anni, poi solo di altri 10-15, fino al 2030, ma la leucemia ha eseguito gli ordini superiori.
Certo è stato grande, in tutti i sensi, forse il più grande del dopoguerra: geniale, visionario, bugiardo,  è diventato miliardario e all’età in cui tutti si va in pensione, lui è entrato in politica diventando d’emblé primo ministro.
Ha cambiato la vita degli italiani, ma non nel senso indicato dai suoi moralistici detrattori, bensì perché ha liberato milioni di pensionati e casalinghe dalla camicia di forza della Rai, dando loro migliaia di film gratis.
Come uomo e come imprenditore è stato meglio e peggio dei suoi rivali. Come politico ha mancato la missione (anche se qualche promessa l’ha mantenuta), lasciando l’Italia come prima: perché lui non faceva politica, voleva solo proteggere le sue tv dai “comunisti”. E per lui erano comunisti tutti quelli che non si piegavano alla sua volontà.
Da qui il partito azienda.  Nella vita intima è stato indecente, per questo è stato castigato in modo virulento e anche un po’ ipocrita, non per il suo fallimento politico.
(da Cronaca Oggi)
Scrivo l’epitaffio che segue per rispondere a una giovane di 16 anni che, nata nel XXI secolo, all’inizio del declino del de cuius, non tiene nel suo pantheon di miti, eroi e demoni, Silvio Berlusconi. Chiede: chi fu? Ci provo.
Mi sono un po’ dilungato ma il personaggio è difficile da liquidare in 30 righe.
La storia di Berlusconi è una epopea, un romanzo.
Per praticità, spezzo il lungo articolo di oltre 6 mila parole. Riporto qui sotto i titoli con link degli altri due pezzi. Spero troviate la forza di leggerli.
Comincio fissando una serie di punti. Se è vero che in un mondo di orbi il monocolo è re, Berlusconi aveva entrambi gli occhi bene aperti mentre i suoi avversari erano obiettivamente dei nanerottoli.
È stato un gigante, in mezzo a tanti nani. Ma non quel superman che certi suoi avversari in vita e ora in morte vogliono fare apparire, non è il titano che ha cambiato l’Italia.
L’Italia è cambiata sulla scia del mondo e col miracolo economico, Berlusconi ha surfato il cambiamento ed è diventato grande. Altri ci hanno provato e sono falliti.
Si può dire di lui ogni male ma come leader è stato grande. Ha saputo tenere vicini i suoi dirigenti e i suoi figli, anche se, guardando le foto del suo funerale, solo Marina (di cui tutti nel loro mondo dicono un gran bene, paragonandola al padre) e Luigi, il più giovane, appaiono all’altezza della situazione. Sconcerta Piersilvio, in jeans, una controfigura di Johnny Depp. Però lo capisco. Con un padre così, o lo uccidi o ti uccidi (come è accaduto con Agnelli) o fai un disastro (come da noti esempi in casa dei suoi rivali).
Nel mondo dei mass media in Italia nel XX secolo c’è stato solo uno pari a Berlusconi come innovatore al suo livello: Eugenio Scalfari. Scalfari segnò il punto di arrivo di un processo di rinnovamento della stampa italiana nel dopoguerra avviato dai mitici Longanesi, Rossi, Pannunzio, Guareschi, perfezionato dal suocero di Scalfari, Giulio De Benedetti, portato a compimento da Piero Ottone e da Scalfari al successo duraturo.
Ma Scalfari non sarebbe mai stato Scalfari senza il sostegno, la moderazione e la guida di Carlo Caracciolo, suo editore amico fratello.
Mentre però Berlusconi riconosceva la grandezza di Scalfari (un gradino sotto ma sempre nell’empireo, lo stesso sentimento di stima e ammirazione Berlusconi non provava per Caracciolo. Forse c’era di mezzo la questione di una donna.
Sottovalutare Caracciolo si rivelò per Berlusconi un errore fatale, lo vedremo fra qualche riga.
Ricordo un paio di momenti nel primo periodo della guerra di Segrate, quando Berlusconi si impadronì della Grande Mondadori che aveva appena acquisito il controllo di Espresso e Repubblica.
Berlusconi aveva fissato al lunedì una riunione con i dirigenti del nuovo super gruppo.
Era uno spettacolo.
Battute tipo: “Ho dormito poco perché stanotte alle 2 mentre lavoravo è arrivata mia moglie da San Moritz e cosa volete ho la moglie giovane”.
Oppure: “Questo è Confalonieri, il mio compagno di classe ricco, ora le parti sono capovolte”. Oppure si alzava, prendeva il fazzoletto dal taschino e spolverava un dirigente che aveva vantato i risultati della sua divisione. (Salvo poi licenziarlo mesi dopo perché era un incapace).
Erano i tempi in cui Berlusconi vestiva una specie di divisa: blazer blu e cravatta blu a pallini bianchi.
Peppino Turani mi preconizzava una brutta fine: “Lui li vuole alti e magri, tu sei piccolo e grasso”.
Alla seconda riunione già tre dirigenti si presentarono con la cravatta come quella del preside.
Dopo lo spettacolo, pranzo in mensa dirigenti. Mi trovo Berlusconi di fronte a tavola. Mi dice: “Ho bisogno di Scalfari e dei suoi articoli per ottenere la legge che mi metta in regola e al sicuro” (ammissione trasparente, ma anche i bugiardi dicono verità senza accorgersene, di quella posizione fuori legge di cui scrivo più avanti). 
In una altra riunione del lunedì Berlusconi si presenta con una dichiarazione del genere: “Ci ho pensato e ripensato. L’unico che per cultura ingegno e creatività sia alla mia altezza nel dopoguerra nel mondo dell’editoria è Scalfari”.
Poi si guarda attorno. Nel frattempo, si è alzato e si aggira nello spazio fra il suo tavolo e i banchi dei dirigeenti
Mi vede con l’aria ingrugnita. Ne avevo motivo. Mi ero alzato alle 5 del mattino per essere alle 10 a Segrate per sentire quelle scemenze. Ma lui pensa che sia in polemica con la sua tesi. Chiede: “Chi non è d’accordo? Lei Benedetto?”
Rispondo: “Ha ragione per Scalfari ma fossi in lei non sottovaluterei Caracciolo che anche lui qualcosa ha fatto in questi anni”.
Mi guarda colpito: “Certo certo ma Scalfari è più grande di tutti”.
Un simile errore Carlo De Benedetti non lo ha mai commesso. Ha tenuto sempre Caracciolo nel massimo rispetto, una specie di santo laico della sinistra, fino alla di lui morte.
E fu proprio Caracciolo, come vedremo, decisivo nella sconfitta di Berlusconi al termine della guerra di Segrate.
Berlusconi aveva, come si dice, una marcia in più: del genere che tu decidi di andare al bar e quando ci arrivi scopri che lui ti ha anticipato e lo trovi già lì. Scrivo questo per enfatizzare la capacità di Berlusconi di anticipare le mosse di amici e nemici, senza lasciare nemmeno il più piccolo spicchio di territorio scoperto.
A testimonianza ricordo una mia visita a un fondo di investimenti a Boston a fine anni ’90, nel periodo d’oro in Borsa di giornali e internet. Visitavo periodicamente gli investitori in tutto il mondo per illustrare quanto noi del Gruppo Espresso fossimo belli e bravi.
A un certo momento il mio interlocutore di Boston ricordò: “Un po’ di tempo fa sono venuti per conto di Berlusconi a comprare il nostro pacchetto di azioni Espresso. Noi non abbiamo venduto e abbiamo fatto bene”.
Rimasi colpito. La visita era avvenuta nel periodo acuto della guerra di Segrate (si veda più sotto) e Berlusconi rastrellava più azioni Espresso che poteva per bilanciare il più possibile il pacchetto dei vecchi soci. Quel fondo era piccolo e le azioni Espresso in suo possesso marginali ma niente era marginale per Berlusconi, nulla doveva restare intentato.
Questo è sempre stato uno dei suoi maggiori punti di forza.
È caduto quando si è creduto invincibile e sopra di ogni limite umano (fanfalucava di immortalità, dormiva tre ore per notte (salvo addormentarsi davanti all’interlocutore), si inventava la favola della nipote di Mubarak, si comportava come un valligiano in vacanza all’estero quando faceva le corna nelle foto di gruppo.
Che vergogna per un italiano vedersi rappresentato al G20 da un energumeno che, sempre al momento clou, la foto di gruppo, scatenò una tale confusione che provocò l’irritazione della regina Elisabetta al punto che quella strillò: “Ma chi è quello la (Who is that man)”.
Per non dire della amicizia con Putin. Ho qualche idea su cosa la motivasse. Preferisco non riferirne per prudenza.
E ancora faceva i bunga bunga sfidando le regole del decoro imposte a ogni governante in tutto il mondo, al punto che di recente a Londra hanno messo in scena un musical col bunga bunga come pezzo forte.  
Anche su Alexander Hamilton hanno fatto un musical. In esso però il braccio destro di Washington appare come il gigante che è nella storia americana, morto in duello per onore.
Anche se non furono momenti brillanti di politica internazionale,  in fondo queste forme di insensato esibizionismo si possono anche capire. Pensate, uno che siede su un patrimnio di alcuni miliardi di euro, domina la politica del suo Paese, in mezzo a una mandria di politicanti e burocrati spesso anche incapaci. Dareste di matto.
Berlusconi è caduto per il bunga bunga e le serate eleganti con donne di facili costumi. Lo hanno messo in ginocchio i pm di Milano.
I suoi nemici comunisti, il cui spauracchio gli servì per motivare il suo ingresso in politica e gli portò milioni di voti, non gli fecero poi tanto male. Anzi furono perfino troppo indulgenti. Non con le parole, certo, ma nei fatti. E il modo ancor m’offende. 
Le mutazioni del Pci con D’Alema e Veltroni, Bersani (quello della diretta con i grillini, zimbello dei taxisti e degli ordini dei callisti e dei giornalisti), Napolitano (santificato da Repubblica ma sul cui operato, specie proprio a fronte di Berlusconi, avrei qualche riserva) lo lasciarono sopravvivere quando avrebbero potuto finirlo, rinunciarono ad elezioni anticipate che avrebbero portato la sinistra in trionfo al Governo, gli diedero nuova vita quando potevano terminarlo, gli permisero di scegliersi il successore, furono sue alleate nella guerra contro i giornali.
Voglio pensare che si sia trattato solo di incapacità. 
Come uomo e come imprenditore Berlusconi è stato meglio e peggio dei suoi rivali. Come altri, che non nomino per evitare querele, fu bugiardo, fedifrago, doppiogiochista, fabbricante di nero e distributore di mazzette. 
Solo che Berlusconi fu più bravo dei rivali, nel senso che fu più spregiudicato e irrispettoso della legalità di loro. Un po’ come i cinesi, per i quali i vincoli esistono per essere aggirati e violati.
Fu soprattutto un grandissimo venditore.
C’è una scena nel film “Loro 2” di Paolo Sorrentino che esprime meglio di qualsiasi altro tentativo l’essenza di Berlusconi: un supremo venditore. In quella scena, inventata forse ma tanto verosimile, Berlusconi riacquista fiducia in se stesso riuscendo a vendere con una sola telefonata a una signora scelta a caso sull’elenco telefonico un appartamento in un complesso edilizio che non esiste.
Così fu col milione di posti di lavoro che promise di creare, con la prospettiva che anche gli italiani meno abbienti avrebbero avuto la stessa sanità degli svizzeri, col mitico “contratto con gli italiani” firmato in diretta tv davanti a un dubbioso e divertito Bruno Vespa.
Come politico, invece, ha mancato la missione (anche se qualche promessa l’ha mantenuta, ma non rileva a fronte del fallimento complessivo) lasciando l’Italia come prima e peggio di prima.
Ma lui non faceva politica, voleva solo proteggere le sue tv dai “comunisti”. Da qui il partito azienda. Da qui la sua folle invenzione del tfr espropriato e affidato ai sindacati per tenerli buoni.
Con tutto il suo anticomunismo ha presieduto alla trasformazione dell’Italia in un modello di socialismo che ci vede fermi da 20 anni.
A lui importava che i comunisti, gente in prevalenza per bene anche se capace di nefandezze in nome della obbedienza al Partito, gli reggessero il sacco nella feroce guerra ai nemici delle sue tv (la complicità era favorita dal fatto che la Rai, dove la sinistra imperava, fonte di impiego per redattori programmisti e autori, nonché di appalti, non poteva non essere coinvolta in una riduzione degli affollamenti pubblicitari). E questo dava parecchio fastidio.
II
Era il 1998, tempo della bicamerale.
Massimo D’Alema voleva cambiare l’Italia, con gabile come presidenzialismo e elezione diretta del premier, come vent’anni dopo provò a fare Matteo Renzi. Erano in ballo sempre le stesse utopie che oggi frullano nel giro di Giorgia Meloni.
L’unica riforma che era interessante per Berlusconi era quella che avrebbe ingabbiato e subordinato a lui la Magistratura.
Per questo il dialogo saltò. Il partito di D’Alema non poteva reggere l’impatto di un massacro dei magistrati.
Ma Berlusconi qualcosa comunque ottenne, perché nel procedere, saltò anche l’ultimo tentativo di contenere il dilagare degli spot.
La speranza dei giornali era affidata a un disegno di legge noto col suo numero identificativo, 1138. Doveva ridurre contemporaneamente gli affollamenti pubblicitari di Rai e tv private rendendo disponibili per la carta stampata le risorse che non avrebbero trovato spazio nell’etere.
Andò avanti per mesi in una commissione del Senato. Taccio per carità di sinistra sulla vergognosa pantomima inscenata da comunisti illusi e perbene.
Andavo spesso a riunioni fino a quando, un giorno, uscendo, faccio un tratto di corso Rinascimento, fuori del Senato, con un collega che fu bravo direttore di giornali, persona integerrima e anche genovese seppur di adozione.
Gli dico da ingenuone: “Dai facciamo uno sforzo, questo un buon momento per una rinascita dei giornali”.
Lui mi risponde sconsolato: “Lasciate perdere, è tutto deciso”.
Berlusconi, in un angolo della Bicamerale, aveva piegato i Ds o Pds di D’Alema. Ma non se ne fidava. Così, dando una ulteriore prova della sua capacità di non lasciare aperto per l’avversario neanche uno spiraglio, convinse il relatore, un ex democristiano suo acerrimo nemico, a lasciare lo schieramento di sinistra con funambolismi democristiani.
Al di là di tutte le chiacchiere Berlusconi ebbe solo tre nemici giurati: la sinistra democristiana, il potere giudiziario e Carlo De Benedetti.
Di quest’ultimo dirò oltre, della magistratura si può solo dire che lo portò a un passo dal carcere, della sinistra Dc pochi ricordano le dimissioni in gruppo dei suoi ministri nel 1990 per ottenere l’approvazione della legge Mammi che fu la sola iniziativa politica che limitò lo strapotere del Nostro.
Di quella pattuglia di eroi faceva parte l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Pochi ricordano ma Berlusconi non ha mai dimenticato. Questo spiega la trentennale ostilità di Berlusconi verso Mattarella, che solo l’astuzia valligiana di Renzi riuscì a aggirare.
Ma non dovette a nessuno il suo successo, usò tutti, P2 inclusa, li piegò ai suoi disegni. Fece tutto da solo.
Per questo va inserito fra i personaggi più importanti del panorama politico e imprenditoriale italiano dall’Unita a oggi.
Siede nell’empireo della nostra storia provinciale ma popolata di grandi come Agnelli, Valletta, Pirelli, Gualino, Ansaldo, Perrone, Rubattino, Bombrini, Faina e tanti altri, fra i pionieri che hanno trasformato l’Italia da un Paese di contadini analfabeti a una delle nazioni più ricche del mondo. 
Guai però paragonarlo con Agnelli. Giovanni Agnelli senior e gli altri che ho elencato e altri ancora erano titani. Come Agnelli fu grande nel rapporto con i dirigenti e in genere i dipendenti.
Berlusconi fu un uomo geniale che intercettò il trend degli anni ‘70, verso la tv commerciale.
Fu un grande imprenditore, visionario e anche capace, nella sua assoluta diffidenza, di ascoltare i suoi collaboratori. Non fu un industriale: fu un grandissimo venditore: di pubblicità, prima, di politica dopo. Forse per questo non fu cattivo: opportunista, anche spietato, ma non cattivo. Avrebbe potuto distruggere i suoi avversari, quando era all’apice, ma non lo fece. Lo fecero gli altri con lui, anche se non per il suo fallimento politico ma per le sue intemperanze amatorie.
Lui era uomo di pace, alla sua maniera: la guerra era inutile, quando potevi comprare gli avversari. 
Se fu un grande imprenditore, lo fu molto meno come politico. Niente lo può fare paragonare a un Cavour ma nemmeno a un Crispi o un Giolitti. E nemmeno a De Gasperi o Togliatti.
La causa del suo fallimento politico è insita nella motivazione della sua attività politica. La maggior parte dei politici è mosso, al di là della voglia di arricchirsi (marginale) o di non lavorare (oggi abbastanza evidente), da una idea. Così fu per i giganti della storia, così è per i grandi e meno grandi di oggi, Putin e perfino Trump inclusi.
Berlusconi entrò in politica non per realizzare una idea politica ma per servirsi della politica, e delle sue idee, come di un altro qualsiasi strumento a disposizione di un imprenditore, per proteggere e difendere la sua impresa, nello specifico le sue televisioni.
Tutto ruotava in funzione di Canale5, Rete4, Italia1. Il resto era attività al loro servizio. Infatti, Berlusconi fu titano nella tv, mediocre editore di giornali.
Per proteggere le sue tv spadroneggiò in Europa. Come primo ministro, la sua gestione del rapporto con la Commissione e la burocrazia europea fu nella continuità fra il pessimo di prima e il pessimo di dopo. 
Questo vizio di origine dell’attività politica di Berlusconi ha vanificato gli effetti della sua abilità e della sua superiorità rispetto a tutti i politici italiani suoi contemporanei.
Non si deve dimenticare che l’impero di Berlusconi è stato fuori legge fino al 2011, quando finalmente entrò in funzione in Italia il digitale terrestre. Racconto più avanti questo educativo e poco edificante capitoletto della storia italiana recente.
Sempre tenendo presente il peccato originale della politica di Berlusconi, non si può non riconoscere che nei suoi anni al governo l’Italia resse con onore l’onda della crisi mondiale del 2008 (il declino ebbe inizio col governo tecnico che gli succedette), fu raggiunto il pareggio del bilancio corrente (merito di Giulio Tremonti più che suo), un italiano fu posto a capo della Banca centrale europea.
Questo ultimo fatto costituisce un bell’esempio della sua eccezionale capacità di visione tattica e di manovra. Se avesse applicato davvero queste sue doti a riformare l’Italia chissà dove saremmo ora. Ma come ho detto e ripeterò, a Berlusconi importava solo delle sue tv.
E Mario Draghi presidente della Bce, allora? Ci fu costretto per levarselo di torno. Draghi litigava con Tremonti su tutto e questo era un fastidio quotidiano. In più non c’era spunto che Draghi (allora governatore della Banca d’Italia) non cogliesse per dare il tormento a Berlusconi. Se Repubblica enfatizzava, anche un po’ faziosamente e forzatamente, un aspetto negativo della economia italiana (il Governo Prodi magari aveva fatto peggio, ma la distorsione dei fatti era regola), subito la Banca d’Italia rilanciava la notizia aggravandoli col suo avallo.
Ebbi il sospetto, a quei tempi, verso il 2009-2010, che Draghi volesse fare le scarpe a Berlusconi.
Le mosse di quest’ultimo per liberarsi dell’incomodo furono magistrali.
Consapevole del fatto che il Governo italiano non sarebbe mai stato in grado di far passare la candidatura di un connazionale, Berlusconi si comprò l’appoggio francese, il cui presidente, Nicolas Sarkozy, aveva nel frattempo sposato una torinese. Il prezzo per il Paese fu salato: la Parmalat a prezzo di saldo, centrali nucleari impossibili ma carissime, soprattutto il tradimento dell’amico Gheddafi, abbandonato, pur controvoglia al fuoco dei mitra manovrati dagli interessi petroliferi anti-italiani dei francesi.
Angela Merkel, cancelliere tedesco, poteva anche avercela con gli italiani vu cumprà e traditori con l’aggravante della “culona intrombabile” con cui l’aveva bollata Berlusconi con l’aggiunta di pubbliche umiliazioni tipo quella volta che la lasciò ferma in piedi ad aspettarlo mentre lui al telefonino organizzava una serata elegante a Arcore.
Ma Angela Merkel non poteva dire di no a Italia e Francia unite. Così ebbe inizio il mito di Draghi e la sua tenuta a Francoforte.
Berlusconi politichese fu geniale quanto spregiudicato al massimo in occasione della sua discesa in campo, arruolando i post fascisti del Msi, chiudendo un pezzo di cosiddetta “guerra civile”. La definizione di guerra civile è per me forzata e profondamente errata ma certo è che con quella mossa Berlusconi scardinò il quadro politico italiano.
Fino a quel momento i post o ex fascisti del MSI erano i reietti della politica italiana. “Fascisti carogne tornate nelle fogne” era un mantra della sinistra. C’era l’arco costituzionale, che andava dai liberali ai democristiani ai comunisti, figlio del compromesso storico, escludendo i camerati dal gioco politico nonché da quello del potere reale e degli appalti.
La spregiudicatezza di Berlusconi spiazzò tutti. Quando fu annunciata la candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, sponsorizzata da Berlusconi, ricordo Scalfari urlare fremente: “Un fascista in Campidoglio”. Qualche anno dopo Scalfari coccolava Fini, arruolato fra i nemici del Cavaliere, e Roma ebbe Gianni Alemanno: non saprei scegliere fra i due).
Vista trent’anni dopo la mossa di Berlusconi appare come uno dei fatti di maggiore portata e conseguenza della sua attività politica. Bisogna però sempre ricordare che la politica non era al servizio di un ideale quale che fosse, ma di un interesse imprenditoriale ben preciso: Mediaset.
Anche il recupero dei fascisti al gioco democratico va a onore della capacità di Berlusconi di vedere sempre un metro più avanti di tutti.
Ma lui già si muoveva sotto traccia anni prima della “discesa in campo” nel 1994. Ho un ricordo diretto del 1990, dal tempo in cui ero un dipendente della Mondadori, guardato con sospetto perché di provenienza caraccioliana.
Per mia fortuna depose a mio favore Amedeo Massari, uomo di Berlusconi per la carta stampata, grande e innovativo dirigente di giornali. Lo conoscevo da Genova, nel lontano 1968, quando Massari era direttore amministrativo del Secolo XIX e io ventenne redattore dell’Ansa. E mi voleva bene.
Massari era diventato il mio referente e per essere ragguagliato mi diede appuntamento a Roma in via della Scrofa, al portone della sede del Msi e del suo quotidiano Il Secolo d’Italia. Mi spiegò: “Il Dottore mi ha mandato ai insegnargli [a quelli del Msi] un po’ di cose sui giornali”. 
Ma per quanto riguarda l’Italia non cambiò nulla, non toccò l’apparato perché erano voti, non toccò le cooperative perché erano inserzionisti. Per un po’ di anni, a fine estate partivano i rantoli minacciosi, contro le coop e contro i magistrati e sappiamo come è andata a finire.
Si parla ancora di Editto Bulgaro. Ecco le parole precise: «L’uso che Biagi… Come si chiama quell’altro? Santoro… Ma l’altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.»
Berlusconi le pronunciò mentre passeggiava con dei giornalisti durante un viaggio a Sofia, in Bulgaria. Quelle parole le ha dette ma forse il direttore generale della Rai fu un po’ troppo solerte nell’eseguire.
Di Berlusconi non ti potevi e non ti dovevi fidare. Pensava l’opposto di quello che diceva, faceva l’opposto di quel che prometteva.
Agli inizi della guerra di Segrate, quando ancora mi convocavano alle riunioni, al termine del pranzo in mensa, Berlusconi mi prende per un braccio e mi pilota all’ascensore. Mentre saliamo verso il quinto piano (mi pare proprio il quinto), soli lui e io mi fa: “Dica a Caracciolo di scaricare De Benedetti e di accordarsi direttamente con me”.
Appena all’aeroporto di Linate, mi attacco a un telefono pubblico (i telefonini erano di là da venire) e chiamo Caracciolo. Premesso che mi sembra una proposta poco credibile, riferisco parola per parola. La replica: “Ha proposto a Corrado Passera [all’epoca braccio destro di De Benedetti] la stessa cosa stamattina”.
La guerra di Segrate, cioè la contesa politica e giudiziaria per il controllo di Repubblica, all’epoca controllata dalla Mondadori, durò circa un anno fra il 1989 e il ‘90.
Causa remota fu la vendita, nella primavera del 1989, dei pacchetti azionari con cui Caracciolo, Scalfari e alcuni loro amici controllavano L’Espresso, a sua volta detentore del 50% di Repubblica. L’altro 50% era della Mondadori. Giorgio Mondadori e Mario Formenton da una parte, Caracciolo e Scalfari dall’altra, avevano fondato Repubblica, uscita in edicola nel febbraio del 1976.
A seguito della crisi provocata dal dissesto di Rete4 (si veda più sotto), De Benedetti e Berlusconi erano diventati importanti azionisti della Mondadori, accanto alle figlie del fondatore e dei loro figli.
Con una serie di abili mosse, De Benedetti si era garantito anche un cospicuo pacchetto azionario da parte degli eredi in misura tale da parlare e agire come fosse già padrone del vapore. Ma aveva fatto i conti senza l’oste Berlusconi e senza gli effetti del suo intemperante carattere.
Intanto, con la regia di De Benedetti, la Mondadori aveva acquisito il controllo dell’Espresso e quindi del 100% di Repubblica. Il giornale di Scalfari viveva i suoi momenti di gloria, vendendo 600 mila copie e più ogni giorno, una miniera d’oro e di potere.
Da un punto di vista editoriale era una prospettiva formidabile: 3 reti tv (e di nascosto anche il primo nucleo della futura Sky, Telepiù), il primo quotidiano italiano, i due grandi newsmagazines, un grandissimo editore di libri.
Si profilava una concentrazione di potenza di fuoco presso un proprietario troppo vicino al partito comunista perché il leader socialista Bettino Craxi (e alla luce dei successivi sviluppi non gli si può dare tanto torto).
Craxi era legato a Berlusconi a filo doppio e gli affidò la missione di far fuori De Benedetti.
Berlusconi agì su due fronti: gli eredi Mondadori e il duo Caracciolo-Scalfari.
I due amici e soci, avendo incassato alcune centinaia di miliardi di vecchie lire, erano destinati a un ruolo decisivo nel nuovo grande gruppo ma non credo includesse, come poi invece avvenne, la prospettiva di diventare dipendenti di De Benedetti, per snobismo e senso di superiorità intellettuale. Soprattutto cercavano di ritagliarsi un ruolo diverso e decisivo, meglio di quello quasi onorifico di presidente riservato a Caracciolo.
Così passarono estate e autunno di 1989 a trescare con Berlusconi, il quale a sua volta raccoglieva i frutti delle intemperanze caratteriali verso gli eredi Mondadori: un accordo saltò per una impuntatura su pochi miliardi, un altro, già firmato, venne stracciato come reazione ai comportamenti sconsiderati di De Benedetti.
Così Berlusconi si trovò nuovo azionista di controllo della Mondadori senza più bisogno di accordarsi con Caracciolo e Scalfari.
Caracciolo ha raccontato la sera in cui Berlusconi gettò la maschera in un libro intervista con Nello Ajello. Personalmente la storia l’ho sentita più volte.
Caracciolo arriva per cena nel pied-à-terre di Berlusconi in via Rovani a Milano.
Berlusconi lo accoglie con un brutale: “Inutile andare avanti, è tutto finito, ho preso tutto io”. Caracciolo non controlla l’ira e grida: “Mascalzone!”. L’altro tranquillo: “Se non lo facevo io lo faceva lui” cioè De Benedetti.
Caracciolo poi completava il racconto con questo seguito per lui molto divertente: Mi sono ricomposto e gli ho fatto notare che mi aveva invitato a cena. Berlusconi contava sul fatto che io me ne sarei andato via furibondo. Fu così costretto a mettere assieme un menù con grande confusione e irritazione. Io ho cenato e sono andato a dormire.
La cosa non finì lì per mia fortuna. Seguì una serie di colpi legali e tribunalizi. Ma il colpo decisivo venne dalla politica. Se tutti quei giornali in mano ad amici del Pci non andavano giù a Craxi, il loro spostamento a fianco degli alleati rivali socialisti non poteva essere gradito al leader democristiano Giulio Andreotti.
Ma come arrivare ad Andreotti, che Scalfari detestava tanto da definirlo simile a Belzebù?
Caracciolo pensò a Giuseppe Ciarrapico, editore di destra esordiente nella sanità, col quale da anni aveva stabilito un cordiale rapporto.
III
L’intervento di Ciarrapico, con l’ombra di Andreotti sulla testa, fu decisivo. La Mondadori, rimasta a Berlusconi, fu riportata alle origini: libri e riviste.
All’Espresso, controllato dalla CIR, controllata dalla Cofide, controllata dalla holding di famiglia di Carlo De Benedetti, andarono Repubblica e una quindicina di quotidiani locali.
Grazie alla guerriglia di Caracciolo e Passera, De Benedetti si trovò in mano un gioiello che era anche un bazooka politico. Se ne servì in più modi. Il giornale fu decisivo nella caduta di Berlusconi.
Come primo atto da nuovo proprietario, De Benedetti licenziò da direttore dell’Espresso Giovanni Valentini, che aveva retto la Resistenza a Berlusconi come un vero capo partigiano.
Mi ordinò anche di non comprare da Scalfari e Caracciolo le rotative che avevo clandestinamente comprato per fare uscire, in caso di sconfitta, un nuovo giornale (Scalfari non era molto ottimista circa la forza del suo solo nome come elemento di vendita del nuovo giornale: contro le 600 mila di Repubblica ne prevedeva al massimo 240 mila).
Disobbedii a De Benedetti, come altre volte. Scalfari, forse il più grande giornalista italiano del secolo, volle anche gli interessi.
Spietato con i concorrenti, Berlusconi era grande e generoso con i suoi fedeli. Se eri dei suoi, ti colmava di doni, inclusi gli appartamenti. Ricordo la gioia di Amedeo Massari, quando scoprì che Berlusconi gli aveva regalato una casa. E credo che non sia stato il solo, nell’inner circle, a essere così beneficato.
Ma credo che anche grande parte dei dipendenti non potesse lamentarsi di Berlusconi e della sua larghezza col denaro.
Sfido. Tra ricavi stellari e stretto controllo degli sprechi, Mediaset arrivava a margini sopra il 30%, fatturato in rapporto ai costi. Poteva permettersi di essere generoso.
Ma c’era qualcosa di più, un senso di fedeltà e lealtà con i suoi uomini (donne credo solo un paio) che ha trattenuto attorno ai figli e alle aziende il massimo del patrimonio professionale accumulato in mezzo secolo di lavoro.
La storia di Berlusconi ha inizio negli anni ’50-’60, quando, appena laureato, mette su un complessino con il suo compagno di scuola (e ancor oggi al vertice di Mediaset) e intrattiene i passeggeri sugli ultimi transatlantici e sulle prime navi da crociera. Ho letto in alcuni coccodrilli un tono snobistico da parte di giornalisti di oggi nel riferirsi a questi esordi. Snobismo da figli di papà. All’epoca molti giovani di buone speranze trovavano in quella delle band una divertente attività per guadagnare un po’ di soldi in vacanza. Per me bambino erano un mito.
L’Italia era in pieno boom. Milano, capitale morale ed economica, era satura di immigrati, non solo contadini dalla Padania e dal Veneto ma anche giovani diplomati e laureati figli della guerra, emergenti dei nuovi ceti medi, per i quali vivere in centro era troppo costoso e anche soffocante.
Berlusconi fu tra i primi a capire e, ispirandosi ai modelli inglesi e americani delle città satelliti, inventò Milano 2. 
Erano anni di inflazione galoppante, sopra il 25%, le banche i soldi non li davano nemmeno alla Fiat, figuratevi se imprestavano milioni di allora a un baldo giovanotto trentenne con grandi idee e poco più. Questo dà credibilità alla ipotesi che Berlusconi sia stato messo in contatto con qualcuno in Sicilia che i soldi li aveva ma non erano, come si dice oggi, tracciabili.
Questo è un lampo di quel dark side di Berlusconi che ci ha tormentato in questi anni. Penso che le varie rivelazioni dei vari pentiti abbiano contribuito a inquinare il racconto, spostando convenientemente i tempi e dirottando l’attenzione sulle stragi mancate degli anni ’80 invece che sugli esordi.
Anche la presenza dello “stalliere” Mangano ad Arcore per me è più legata ai fondi neri costituiti da Berlusconi ai Caraibi con la cresta sull’acquisto dei film americani, probabilmente senza dirlo agli azionisti impresentabili, che non a paure di rapimenti o stragi.
Mentre Berlusconi costruisce Milano 2, in Italia il monopolio Rai si sgretola. Siamo nei primi anni ’70.
Ancora nel 1960 la Corte Costituzionale aveva confermato l’esclusiva Rai con l’argomento della scarsità delle frequenze disponibili in Italia, negando al Tempo di Renato Angiolillo la possibilità di mandare in onda Tempo Tv. Stesso argomento per le radio. La tesi era che chiunque può fare un giornale, in quanto basta una rotativa, mentre le frequenze disponibili in Italia erano contate. Argomento un po’ fallace, visto che per fare il Corriere della Sera o Repubblica da zero ci vuole qualche milione o miliardo.
Poi però succede che in Inghilterra esordiscono le prime radio private e sfidano il monopolio della BBC: la mitica Radio Luxembourg, che trasmetteva da una nave ancorata in acque extraterritoriali, poi Capital Radio. Intanto volano le tv private regionali consorziate in Itv: il modello vede i costi coperti della pubblicità, mentre la BBC è finanziata dal canone e non trasmette spot pubblicitari.
In Italia rompe il muro Tele Biella, una tv via cavo. Sfrutta il fatto che la Tv via cavo non era inclusa nei divieti della legge italiana. Seguono feroci polemiche politiche fino a quando la Corte Costituzionale apre al futuro, riconoscendo il diritto di esistere non solo per le tv via cavo, ma anche alle trasmissioni via etere, limitatamente all’ambito locale.
Restava il macigno del limitato numero di frequenze disponibili in Italia che sarebbe stato rimosso col passaggio al digitale, 40 anni dopo durante i quali fu una costante della Corte Costituzionale. E fu anche alla base della Legge Mammì del 1990 (quella per la cui rapida approvazione rinunciarono alla poltrona di ministro Mattarella e gli altri del gruppo di Ciriaco De Mita: fatto talmente eccezionale da essere ricordato nei libri di scuola; ma in Italia pochissimi conservano memoria, tra loro era Berlusconi).
La legge Mammì, basandosi sulla scarsità delle frequenze, stabilì che Rai3 di Rai e Italia1 di Mediaset non fossero più trasmesse via etere da terra bensì per via satellitare. Ciò avrebbe ridotto di un terzo il bacino di spot della offerta pubblicitaria di Berlusconi, per il quale invece la interfunzionalità delle tre reti, con tutti i possibili giochi di pacchetti e orari, era un dogma come la Trinità per i cristiani.
Come chiunque giunto a maturità prima del nuovo secolo può avere constatato, Rai3 e Rete4 sul satellite non ci sono mai andate.
Berlusconi è stato fuori legge per vent’anni e nessuno se ne è accorto o ha voluto accorgersene. Nemmeno i tanto feroci comunisti, sempre con la testa da un’altra parte, sempre complici nel gioco della Rai.
Anche la Corte dimostrò una fantastica tolleranza per Berlusconi. Ci fu un momento, una ventina di anni fa, in cui Berlusconi prese ad attaccare la Corte Costituzionale. Mi chiesi perché. Conclusi che si trattava di un attacco preventivo, forse aveva avuto sentore di un imminente richiamo all’ordine, e attaccava per primo.
Finalmente un passaggio di Rai al digitale terrestre un po’ arronzato e ancora imperfetto dissolse l’incubo.
Erano passati trent’anni dall’inizio della avventura e aveva avuto inizio la fase calante.
Ma allora, negli anni ‘80, era la ouverture di una marcia trionfale.
Il genio di Berlusconi si scatena. Fa incetta di tv locali e di frequenze (ben consigliato da Adriano Galliani in questa mossa decisiva), mentre aggira la legge che limita le emissioni all’ambito locale con un semplice, quasi banale stratagemma. Registra i programmi, manda le cassette in tutta Italia facendole mettere in onda con pochi minuti di intervallo fra le varie emittenti.
Così la legge era formalmente rispettata ma agli inserzionisti era garantita una quasi contemporaneità, condizione indispensabile per l’efficacia degli spot e la loro coerenza con le caratteristiche dei profili delle ricerche.
Ma un pretore non accettò la soluzione e bloccò Canale 5. Ne seguì una pantomima politica. Bettino Craxi, grande amico di Berlusconi e come lui ossessionato dai comunisti che poi alla fine ne decretarono la fine, ricattò il primo ministro Andreotti minacciando la crisi di governo se non fosse stato permesso a Berlusconi di trasmettere. Fu il liberi tutti. (Il decreto fu dichiarato incostituzionale 10 anni dopo e sostituito dalla Legge Mammì del 1990 di cui dico sopra. In quei 10 anni Berlusconi costruì il suo impero).
Così due editori della carta stampata si misero all’opera, Mondadori con Rete4 e Rusconi con Italia1. Fu una catastrofe. Rusconi si ritirò dalla tv nel giro di pochi mesi, cedendo la rete allo stesso Berlusconi.
Mondadori quasi fallì. L’azienda fu salvata con una operazione di ingegneria finanziaria architettata dalla Mediobanca di Enrico Cuccia. A controllare la casa editrice fu costituita una holding, Amef, il cui capitale era diviso fra i discendenti del fondatore Arnoldo Mondadori, Berlusconi e il suo arcinemico Carlo De Benedetti. Erano le premesse per la guerra di Segrate, scoppiata a fine anni ’80 fra i due tycoon.
Nel procedere Berlusconi si prese Rete 4. Se non l’avesse fatto, la Mondadori sarebbe affondata.
Hai voglia a dire che Berlusconi li ha stesi tutti con l’inganno e si è preso le loro tv a prezzo di saldo. La verità è che è stato il più bravo di tutti, nel bene come nel male.
Nel bene si registra l’incetta di film americani fatta da Berlusconi, lasciando ai concorrenti ben poco da mostrare.  Quando si presentarono a Hollywood, festanti come in una gita aziendale, trovarono terra bruciata.
Con quei film Berlusconi rivoluzionò usi e costumi della tv in Italia. Fino al suo avvento, la Rai monocanale trasmetteva un solo film l a settimana, scelto con criteri anche di qualità e valori cultuali da un bravo critico genovese, Claudio G. Fava. Dovevano inoltre essere trascorsi 2 anni dal passaggio in sala. Con Berlusconi furono film di ogni tipo a ogni ora dall’alba a notte fonda, un trionfo.
Nel processo fu scardinato anche il sistema di distribuzione: Molto meno gente andava al cinema, la tv glielo portava in casa. Ci sono proprietari di sale che ancora girano gli occhi al cielo al solo nome di Berlusconi. Il quale entrò poi nel settore, comprando parecchie sale, forse un po’ con intenzioni risarcitorie.
Dalla lista del male ricordo solo un racconto che circolava negli anni ’80.
Riguarda la pubblicità ed è esemplare della astuzia di Berlusconi, sempre in azione.
Raccontavano, nei secondi anni ‘80, di un episodio della concorrenza fra Canale5 e Rete4.
Publitalia, la rete costruita da Marcello Dell’Utri, vendeva la pubblicità di Canale5. Berlusconi era il venditore principe, pranzo e cena con potenziali clienti, contratti basati sul principio: mi paghi in funzione dell’aumento del tuo fatturato.
Soprattutto però, l’argomento vincente erano i prezzi bassissimi se confrontati con quelli di Rai e della carta stampata. Su entrambi i rivali pesava lo scarcity value, il valore dato dalla limitatezza dell’offerta. Per Rai era conseguenza dei forti limiti imposti all’affollamento, gli editori dovevano considerare, oltre agli ingenti costi da coprire, anche il costo di carta e stampa delle pagine pubblicitarie aggiuntive.
La tv commerciale non aveva costi aggiuntivi, anzi. Dovendo riempire le 24 ore, più pubblicità c’era meno film e programmi servivano. Lato ricavi, una lira era ed è meglio di zero. Gli spettatori erano felici e tolleranti. In alternativa a una Rai che ti infliggeva l’Orlando Furioso in versione Luca Ronconi, qui avevi gratis i film del momento e più avanti Drive In.
La pubblicità su Rete4 era venduta dagli stessi uomini e donne che vendevano Panorama e Grazia. Logiche di costi e prezzi opposte.
L’allora capo di Mondadori, Mario Formenton, dopo tante proteste, arrivò a un accordo. I prezzi sarebbero stati bloccati senza sconti. Era venerdì. L’accordo entrava in vigore lunedì. Quelli di Mondadori partirono per il week end, Berlusconi e i suoi si misero pancia a terra e riempirono i carnet ordini. Quando con la nuova settimana i concorrenti iniziarono a vendere, scoprirono che non c’erano più budget disponibili.
Concludo con un altro fatto determinante nella sua romanzesca carriera. Coincide con il suo ingresso in politica, la discesa in campo.
A quel tempo l’Italia era sconvolta dalla tormenta nota come Mani Pulite. Un gruppetto di magistrati della Procura della Repubblica di Milano aggredì la classe politica ed economica italiane con una serie di arresti per corruzione e tangenti.
Avevano il pieno sostegno della gente, esasperata dalla virulenza dei potenti.
Il risultato non è stato granché, anzi penso che avere spettacolarizzato inchieste e processi (incluse dirette tv) ha fatto solo danni. Guardate come si sono comportati i tedeschi con Helmut Kohl per rendervi conto: anche questo ha pesato nella differente evoluzione dei due Paesi. L’Italia non è il Paese più corrotto del mondo. Altri che si vestono di ipocrita moralismo nel giudicarci sono peggio. Noi però ce l’abbiamo messa tutta per coprirci di ignomina.
Ricordo con un brivido quel momento in cui i pm di Milano sfidarono i vertici dello Stato in diretta tv all’ora di pranzo. In Francia sarebbe arrivata la gendarmeria, da noi fu un tripudio. 
Il 1989 fu in tutto il mondo un anno di crisi economica. In Italia, in fase di riassestamento dopo un decennio di crescita, la crisi durò più a lungo e Berlusconi rischiò di esserne travolto. Si era allargato troppo. Oltre al blitz su Mondadori pesava l’attuazione di un altro grandioso disegno. Lo sentii raccontare dallo stesso Berlusconi in un momento di umiltà in una delle riunioni del lunedì.
L’idea era semplice. Avendo ottenuto la completa copertura della Penisola con le frequenze di Canale5, appariva logico l’abbinamento spot- supermercati. In tal modo gli italiani guardavano Canale5, vedevano la pubblicità e alla Standa, nel frattempo annessa al nascente impero, trovavano i prodotti da acquistare.
Non andò così perché la Standa non copriva l’Italia con la facilità delle frequenze. E anche perché nel frattempo arrivò la recessione di cui sopra.
Fu una altra occasione per Berlusconi per mostrare la sua capacità di sopravvivenza e oltre.
Si era arrivati al punto che a Milano ti dicevano che Berlusconi era ormai spacciato. Si parlava di debiti oltre i 7 mila miliardi di lire, tre miliardi e mezzo di oggi. Enrico Cuccia, il gran maestro della grande imprenditoria italiana, con la sua Mediobanca architetto della rinascita industriale del dopoguerra, si diceva che a Berlusconi non rispondeva nemmeno al telefono.
Berlusconi fondò Forza Italia, con l’aiuto organizzativo di Dell’Utri e la ossatura della rete di Publitalia, aggregò fascisti e Lega, fenomeno nato dalla ribellione del Nord alla redistribuzione di risorse in eccessivo favore del Sud. Vinse le elezioni e diventò presidente del Consiglio.
Allora Cuccia prese il treno e si presentò a Palazzo Chigi di persona, senza bisogno di telefono.
Cuccia inventò Mediaset, costrinse Berlusconi a subire le regole della Borsa e dei soci di minoranza e lo salvò dalla bancarotta.
E ora? Sono un reporter e non mi sento in grado di fare previsioni.
Lo scenario è molto cambiato dai miei tempi. I giornali vendono sempre meno copie (ma contano sempre molto), internet ha sconvolto gli usi di lettura e la pubblicità. Il modello della tv di Berlusconi è saltato dall’arrivo del satellite ed è stato sconvolto da Netflix e replicanti.
Unica sopravvissuta mi sembra la Mondadori. Sotto la guida di Ernesto Mauri si è focalizzata sulla vocazione originaria della editoria libraria. Mi pare con risultati positivi.