Avvenire, 20 giugno 2023
Cari studenti, scrivete in italiano
In vista della prova scritta di Italiano dell’esame di maturità (che si svolgerà domani), nei media e nei siti web dedicati, si moltiplicano, come ogni anno, i consigli agli studenti. Se mi venisse chiesto un consiglio su tutti, direi semplicemente questo: «Cari ragazzi, cercate di scrivere in italiano». In tanti anni di insegnamento ho visto come i giovani incontrino crescenti difficoltà a produrre testi in una lingua corretta. I problemi mi sembrano sostanzialmente tre: strutturare periodi sintatticamente ben articolati; utilizzare un lessico adeguato; scegliere un registro stilistico adatto all’argomento che si sta trattando. Il primo problema è conseguenza del fatto che si legge sempre meno e, soprattutto nell’àmbito della comunicazione social, si leggono (e si producono) testi molto brevi e dalla struttura estremamente elementare. Per questo gli studenti faticano a comprendere non dico la prosa di Manzoni (il cui romanzo pure è lettura obbligatoria al biennio delle superiori), ma anche quella di gran parte dei nostri scrittori del Novecento. Quanto al lessico, la lettura rimane il mezzo fondamentale di ampliamento e acquisizione del proprio bagaglio di parole. Accanto a uno strumento che stranamente molti studenti oggi tendono a trascurare: il dizionario. Mi stupisce sempre il fatto che, al primo anno di università, ai miei esami scritti di Letteratura italiana solo pochi candidati portino con sé il vocabolario della lingua italiana. Siamo ancora nel 2023, ma evidentemente gli editori si portano avanti marchiando il nuovo prodotto con l’anno successivo. L’ultimo e più aggiornato è quello curato da Nicola Zingarelli e pubblicato da Zanichelli: lo Zingarelli 2024 (pagine 2.688, euro 78,00). La novità principale della nuova edizione sono le “sfumature di significato”, una rubrica pensata per mettere a fuoco le differenze semantiche tra termini vicini. Per esempio, qual è la differenza tra saggezza, senno, avvedutezza e
oculatezza? O tra rivale, avversario, oppositore e nemico?
O, ancora, tra
autentico, originale e
genuino? La precisione lessicale è importante per un uso corretto della lingua.
Le parole naturalmente hanno una storia, che spesso il vocabolario spiega e contestualizza. La storia della lingua è una disciplina accademica, che a scuola invece viene trattata soltanto superficialmente, nonostante lo studio della letteratura si svolga, specialmente al triennio, in prospettiva storica, cioè sulla base della ricostruzione del suo sviluppo diacronico.
Un libro senz’altro da consigliare a tale proposito è il nuovissimo Profilo storico della lingua italiana di Rita Librandi, edito da Carocci (pagine 448, euro 39,00): un manuale insieme agile e rigoroso, che dà conto delle dinamiche sociali, culturali e politiche che hanno influenzato l’evoluzione della lingua italiana, presentando una serie di esempi che facilitano la comprensione della materia. Infine il registro. I giovani non trovano semplice discernere quale registro utilizzare: alto o basso? formale o informale? sostenuto o colloquiale? Sono convinto che le cose siano peggiorate in tal senso da quando si è deciso di consentire che gli scolari delle elementari dessero del tu ai loro insegnanti. Sul fatto che la scuola debba essere un luogo in cui chi la frequenta si senta a proprio agio siamo tutti d’accordo.
Ma dare del lei al maestro o alla maestra è un primo modo per imparare che la scuola è un’istituzione e che le istituzioni vanno rispettate anche attraverso il linguaggio che si utilizza. Insomma, un modo per apprendere che esistono diversi registri espressivi. La capacità di utilizzare un registro appropriato è un’abilità che si affina col tempo. Ricordo che in seconda liceo classico scrissi, in un tema sulla Gerusalemme liberata, una frase che iniziava così: «Già a una prima occhiata al poema di Tasso, capiamo subito che...». La professoressa scrisse a margine del foglio il seguente commento: «Le occhiate si danno alle belle ragazze!». Una battuta che oggi qualcuno potrebbe forse giudicare leggermente sessista, se non fosse che veniva da un’insegnante donna, ma che allora mi divertì molto, sebbene non capissi bene che cosa non andasse con il vocabolo “occhiata” nel contesto di un’analisi letteraria. A diciassette anni la sensibilità linguistica si sta affinando. Oggi che di anni ne ho cinquantadue (e nel frattempo ho letto qualche libro) capisco che la mia professoressa aveva ragione