Corriere della Sera, 20 giugno 2023
Dentro la crisi di Berrettini
Scordatevi Melissa Satta e lasciate ogni speranza che la crisi di risultati di Matteo Berrettini, l’erbivoro del Nuovo Salario che il 31 gennaio 2022 era n.6 del mondo (best ranking) e ieri si è svegliato sprofondato al n.34, sia da attribuire all’amore, voi che entrate in questa ricostruzione a ritroso di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Non è la stagione che Berrettini voleva, anzi sta diventando l’annus horribilis che i tifosi gli rimproverano (attenzione alle similitudini con un altro campione in difficoltà, Marcell Jacobs, strada facendo); la Cassazione dei social non ammette appello, però parallela alla realtà virtuale corre una verità oggettiva alla quale è necessario aggrapparsi, per non smarrirsi tra gossip e invidia sociale, per tenere la barra dritta oltre la tempesta.
C’è una fragilità di base dell’atleta, di Berrettini come di Jacobs. C’è (stata) una fase di sovraccarico di impegni extra (sponsor, spot, ospitate), che ogni enorme successo porta con sé, Berrettini (primo azzurro ad arrivare in finale a Wimbledon, correva il 2021) come Jacobs (primo azzurro a conquistare due ori olimpici nello sprint), complicatissima da gestire, se non sei consigliato al meglio. È come l’alpinista che scala l’Everest: dopo la fatica, in cima, è legittimo che si prenda qualche istante per godere del panorama. A patto di non rimanerne abbacinato.
Dopo un finale di stagione 2022 problematico, con un rientro affrettato in Davis a Malaga e l’insana idea di giocare il doppio con Fognini (Fabio, sia messo agli atti, non era d’accordo), il 2023 sembrava sorridere di nuovo a Matteo. La ripartenza in Australia, risanato, gli ha consegnato in dote bei successi (su Ruud e Hurkacz, due top 10) e battaglie vere con Tsitsipas e Fritz, perse ma lottate. Certo era la United Cup, ricca esibizione, poi il tennis degli Slam tre su cinque è tutt’altra bestia, però i segnali erano buoni. Il seme della crisi prima ancora che il tema ridiventassero gli infortuni, a Melbourne: un nobile decaduto scozzese con l’anca di titanio, Andy Murray, gli annulla un match point e lo elimina 7-6 al quinto set. È il giorno zero e l’Australian Open del ragazzo che voleva riprendersi tutto con gli interessi è già finito.
In quel momento la love story con Melissa è sulla rampa di lancio, diventerà pubblica a Milano: famiglia e staff del giocatore considerano un fattore positivo che Matteo trovi stabilità affettiva e compensi con la felicità della vita privata la cocente delusione australiana. Il tennis di Berrettini, però, parte in vacanza, insieme alla precaria solidità di un fisico strutturalmente sbilanciato (polpaccetti fini, torso da Hulk) in grado di sostenere on/off gli strappi violenti di un gioco che poggia sull’architrave servizio-dritto. E infatti. Ritiro ad Acapulco con Rune, rientro macchinoso sul veloce di Indian Wells, girone del purgatorio al challenger di Phoenix, sconfitto da Shevchenko, il buio a Miami: kappaò con McDonald. Tutti avversari di classifica inferiore. Sono legnate, oltre che per il fisico, per il morale.
Intenzioni e risultati disallineati, pensiero creativo che anziché produrre, distrugge. Matteo si rende conto che così non va: «Ho deciso di fidarmi di chi mi allena da sempre, mi sono rimesso a lavorare sodo» dice alla vigilia di Montecarlo, via della stagione su terra, ammettendo di essersi preso qualche umana pausa, di aver sostato troppo sulla vetta dell’Everest. Montecarlo, però, mentre anche in Sinner beffato da Rune si apre una crepa mai più chiusa, è un’altra sberla: la fatica improba per superare Cerundolo (osso duro sul rosso, lo scoprirà a stretto giro Jannik a Roma) chiede il conto a Berrettini: ritiro dal torneo, ennesima sosta ai box. Il resto è storia recente. Rinuncia a Roma e Parigi (per il secondo anno), l’erba come balsamo per l’anima. A Stoccarda, il torneo a casa dello sponsor, è impensabile che il testimonial non ci sia. Forse un altro rientro affrettato in nome del business, però il confronto con l’amico Sonego è impietoso: 6-1, 6-2. Matteo esce dal campo in lacrime. «Pensavo di essere più avanti». L’erba è subdola e impietosa: non perdona niente, nemmeno a chi è bello, ricco e famoso.
Il Queen’s è l’anticamera di Wimbledon, Berrettini difende il titolo bis e 500 punti preziosi. Il forfait (senza spiegazioni) arriva alla vigilia: primo turno con Ruusuvuori, il finlandese che ha evidenziato sul verde gli attuali limiti di Sinner. Ancora problemi agli addominali. A questo punto è a serissimo rischio anche Wimbledon, cui l’anno scorso Berrettini non partecipò per positività al Covid (e qui ci sarebbe da ragionare sul fatto che Matteo nel 2022, da favorito dei Championships, non si sia chiuso sotto una campana di vetro per limitare il rischio di contagio, ma questa è un’altra storia). Si ragiona se non sia il caso di fermarsi 5-6 mesi, sempre che il problema sia risolvibile e non cronicizzato, e qui torna il paragone con Jacobs.
Le caviglie di Nureyev sotto il corpaccione di Mr Muscolo. Una complessione per sua natura prona ad acciacchi. Qualche scelta gestionale rivedibile, ma spesso degli errori ci si accorge dopo averli commessi. Sarebbe un delitto che il meglio di Matteo Berrettini da Roma, 27 anni e 7 titoli in carriera, sia già alle spalle. Si può sperare, non si può escludere.