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 2023  giugno 20 Martedì calendario

Cat Stevens, il figliol prodigo

A volte ritornano. Frase spesso usata, ma nel caso di Steven Georgiou, nome d’arte Cat Stevens, nome islamico Yusuf, è davvero giustificata, perché l’artista londinese nel 1978 era uscito dal mondo del pop dedicandosi a un suo percorso di ricerca, una conversione all’Islam che ha creato ai tempi un bel po’ di controversie. Ai due decenni di pausa totale son seguiti altri due con iniziative di beneficenza, qualche apparizione, alcuni album col solo nome di Yusuf. Infine, sei anni fa, il ritorno discografico col doppio nome, come in questo tour mondiale. Voce calda e profonda, canzoni di orecchiabilità suprema, testi poeticamente idealisti, è stato uno dei cantautori più influenti e amati degli anni 70. E se la conversione lo aveva allontanato, a giudicare dal sold out della Cavea all’Auditorium domenica sera e dall’affetto con cui è stato riaccolto, questo figliol prodigo del pop, barba e capelli imbiancati dove una volta c’era una cascata di riccioli neri, è l’ennesima dimostrazione che se sei entrato nel cuore della gente, riaccendere il fuoco è un attimo.
È una strana sensazione: se chiudi gli occhi potresti stare in un Palasport di allora, quell’epoca in cui -fra le contestazioni degli autonomi e le molotov e le cariche della polizia- ai concerti si andava rischiando. La voce, le canzoni, il suono (migliorato, ma questo è il progresso) sono pressoché uguali a quelli di allora. Li apri e c’è un signore di 74 anni che ringrazia più volte (tornare ha sempre le sue emozioni ed incertezze), invece di quattro faretti uno schermo che riempie di colori la notte.
Dopo Moonshadow che ho canticchiato tutta la notte, la scaletta prosegue con i suoi primissimi hit, prima che una poliomielite gli provocasse una prima conversione interiore verso una musica che avesse una profondità più personale. «We were children then», eravamo bambini, allora, dice per introdurre i visuals che lo accompagnano, un cartoon con protagonisti un bambino e una bambina che attraversano un mondo cambiato da 50 anni fa: «Ma certe canzoni valgono ancora adesso», come Where Do The Children Play?, delicata denuncia ecologica ante litteram. Da lì si snoda il rullo della memoria, con gemme disseminate sul sentiero, ognuno ha le sue: Hard Headed Woman dedicata alla moglie e la dinamica Sitting; l’incantevole Morning Has Broken e l’ispirata Peace Train («Quanto ce n’è bisogno adesso»), la iconica Wild World («È un mondo selvaggio baby, difficile farsi strada solo con un sorriso», com’è cambiato la percezione nell’era dei social). Al centro due cover: Here Comes The Sun di George Harrison, «Colui che ha mostrato a me e a tanti della mia generazione la ricerca della luce» e Please Don’t Let Me Be Misunderstood di Nina Simone, «Colei che, oltre all’importanza dei diritti civili, mi ha insegnato a cantare»: bello scegliere le canzoni che ti hanno ispirato per raccontare qualcosa di te da un’altra prospettiva. E poi una manciata di canzoni del nuovo album King of A Land, non molto diverse dallo stile musicale e poetico di allora.
Il finale è la sua canzone più toccante, la storia di un figlio che vuole andare per la sua strada e di un padre, più saggio e forse un filo reazionario, che predica pazienza e cautela: in Father and Son c’è la storia di quegli anni di gap e di rotture familiari: ricorda come «le rivoluzioni spesso nascono in famiglia», e il duetto con il Cat di 50 anni fa che appare sullo schermo con la voce originale è un momento toccante, le stelle sullo schermo si prolungano in platea con cento smartphone accesi.
Il bis ci consegna di nuovo il messaggio che ha ribadito tante volte durante: «All you need is love», semplice e difficile allo stesso tempo. Leggerezza, fanciullezza, saggezza, sobrietà. Cat Stevens/Yusuf è tornato e in un attimo, come a non voler indulgere sul suo ruolo di star, va via. Le luci si accedono, i volti sono quelli di una generazione o due fa. In che anno siamo?