La Stampa, 20 giugno 2023
Chiara Saraceno: “Vivere in affitto è diventato più sicuro”
«Come fanno i giovani a comprare una casa e indebitarsi per vent’anni se si ripete loro che devono prendere il lavoro dove si trova, che devono essere mobili, flessibili, disponibili». Chiara Saraceno, sociologa, studiosa del cambiamento sociale e dei mutamenti nella famiglia, non è stupita dal crollo delle compravendite e dei mutui sulla prima casa.
Perché i giovani italiani non sono concentrati sull’acquisto di un’abitazione come lo erano i loro genitori?
«Innanzitutto sono meno dei loro genitori, anche nel mercato immobiliare stiamo avendo gli effetti dell’onda lunga del calo della natalità. Quindi ci sono meno persone che hanno bisogno di una casa perché è diminuita la popolazione. Poi c’è un problema di reddito, che per i ragazzi italiani è sempre più incerto; per non parlare del dato congiunturale legato alla risalita dei tassi, che aggiunge incertezza a incertezza. Ma è soprattutto l’orizzonte temporale ad essere diventato complicato: perché indebitarsi per un mutuo ultra decennale quando il lavoro è diventato più insicuro e non si sa se si abiterà sempre nella stessa città».
Il paradigma di una volta era auto, casa, famiglia. Al di là dei problemi economici, il modello culturale sta cambiando?
«Sì, sta cambiando. Prima era meglio possedere la casa che andare in affitto, ma adesso i giovani escono sempre più tardi dalla famiglia di origine e sono contrari all’impegno lungo e gravoso del mutuo. Io ho sempre detto che i giovani andrebbero incoraggiati a stare in affitto perché all’inizio una casa può essere piccola, poi quando arrivano i figli deve essere più grande, però se si sono indebitati per vent’anni con il mutuo della casa piccola come fanno?»
Eppure mai si è pensato ad aiutare i ragazzi con l’affitto, i governi hanno sempre incentivato l’acquisto sulla prima casa con tassi e condizioni agevolate per gli under 36.
«Quando Livia Turco era ministra della Solidarietà sociale fece un’iniziativa analoga e io la criticai già allora, in tempi non sospetti, le dissi che non capivo perché incoraggiare i ragazzi a mettere tutti i loro risparmi, pure quelli del futuro, nella casa».
Anche l’idea stessa del lavoro sembra aver perso il significato che aveva fino a qualche tempo fa: i giovani più che al posto fisso sembrano maggiormente interessati allo stipendio, alle tutele, alla possibilità di lavorare in smart working.
«L’ex ministra del Lavoro Elsa Fornero disse infelicemente che i giovani sono choosy (schizzinosi, ndr), io dico che è giusto che lo siano, è giusto che abbiano un lavoro che li valorizza, che riconosce le loro capacità, che dà delle protezioni, che rispetta i loro tempi di vita oltre che un salario adeguato. Tutti dovrebbero permetterselo».
E invece tantissimi ragazzi sono costretti a lasciare l’Italia perché non sono valorizzati e nessuno offre loro un lavoro. Si tratta di un fenomeno irreversibile?
«Se le imprese non fanno nulla e continuano a pensare che i giovani non vogliono lavorare - peccato che se vanno in Germania o in Svizzera invece lavorano - allora sarà un problema per il Paese. Sono le aziende che devono fare qualcosa, è il sistema che non funziona. Non solo abbiamo le persone che vanno all’estero, nessuno vuole venire qua. E chi va all’estero magari vorrebbe tornare, però non trova delle condizioni sufficientemente favorevoli, non solo perderebbe troppo in termini reddituali, ma di riconoscimento di sé, di qualità della vita. Noi abbiamo una doppia erosione: dall’Italia in generale perché vanno via anche dalla Lombardia, e poi dal Sud verso il Nord. Ci sono delle regioni che sono fortemente depauperate e lì la perdita del capitale umano rischia di essere davvero irreversibile».
Nel dibattito pubblico si è spesso decantato il modello di welfare italiano, dallo stato sociale alla sanità, tuttavia noi stiamo arretrando mentre Paesi a noi simili come Francia e Germania avanzano. Perché?
«Chi lo decanta non conosce i dati, perché il welfare italiano nelle analisi comparative non è considerato tra i migliori. Noi abbiamo sempre avuto un welfare frammentato, clientelare e categoriale rispetto a Francia e Germania. Lo abbiamo visto durante la pandemia, con tanti lavoratori che non avevano alcuna protezione, e bonus che spuntavano continuamente per cercare di aiutare tutte le persone scoperte. Per non parlare del reddito minimo per i poveri, introdotto solo nel 2017 con il Rei, noi siamo arrivati dopo la Grecia».
Quali tentativi sono stati fatti per migliorare il welfare?
«Si è cercato di andare verso un maggior universalismo, come con l’assegno unico per i figli. Della riforma degli ammortizzatori sociali non se ne parla più; nel contrasto alla povertà c’è stata una marcia indietro fortissima sul reddito di cittadinanza. Invece di riformarlo per renderlo più equo, si è tornati a un sistema categoriale e anche i più protetti sono meno protetti di prima».
Che cosa ha fatto il governo di centrodestra con il reddito di cittadinanza?
«Ha peggiorato il sistema, per i nuclei che non hanno al loro interno disabili, ultrasessantenni o figli minorenni, l’Isee è stato abbassato e il sostegno sarà miserando. Si era riusciti con il reddito di cittadinanza ad avere un sostegno per i poveri e invece siamo tornati indietro, in pieno contrasto con la raccomandazione europea sul reddito minimo che anche questo governo ha approvato a gennaio, secondo la quale bisogna garantire un reddito decente a chi si trova in povertà».
La politica sta accentuando la frammentazione della società italiana?
«Se mette gli uni contro gli altri e crea privilegi non aiuta né la solidarietà né la coesione sociale, crea una situazione di conflittualità permanente o di disaffezione, la gente si ritira nei propri piccoli interessi privati e questo lo vediamo ad esempio nell’astensionismo, ma non è solo il voto, ciascuno pensa al proprio particolare e non vede più il valore e l’utilità di pensare all’interesse generale».