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 2023  giugno 20 Martedì calendario

La destra e il fastidio per le tasse, dal Cav a Nordio

A novembre, quando il governo pubblicò (con grande ritardo) l’ultima relazione sull’economia sommersa, si sprecarono gli ohibò: l’evasione fiscale e contributiva era scesa sotto la soglia psicologica dei cento miliardi di euro l’anno. Saranno i controlli incrociati, le fatture elettroniche, sarà che l’Agenzia delle Entrate fa il suo lavoro, ma si trattava sempre di novantanove miliardi, quasi il 5 per cento dell’intera ricchezza nazionale. Se ciascun italiano pagasse il dovuto, si potrebbe triplicare la spesa scolastica o raddoppiare quella per la sanità. Si dirà: la pressione fiscale è troppo alta. E invece no, in Danimarca, Francia, Belgio e Austria è più alta, in Germania è solo lievemente più bassa. Si dirà: il sistema chiede troppo ad alcuni e troppo poco ad altri, e poi si scopre che la disparità di trattamento è fra chi può evadere e chi no. Non solo: la propensione all’evasione è più alta al Sud che al Nord, nelle piccole imprese prima che nelle grandi. Nel Mezzogiorno sfugge al fisco il 18,2 per cento delle attività fiscalmente rilevanti. Nel centro-nord, dove si concentra la grande impresa, il dato si ferma all’11 per cento.Eppure – accade a intervalli regolari – gli esponenti di centrodestra occhieggiano con chi quel dovere non sente il bisogno di assolverlo. Gli anni passano, il riflesso condizionato no: una volta era il «taglieggiamento di Stato» (Silvio Berlusconi), oggi la pressione fiscale «immorale» (Matteo Salvini), o il «pizzo di Stato». L’artificio retorico scappa a Giorgia Meloni durante un comizio elettorale a Catania, salvo aggiustare il tiro dicendo di essere stata mal compresa dai soliti giornalisti.A leggerlo bene il vero salto di qualità lo fa il ministro della Giustizia. «Se un imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti per pagare fino all’ultimo centesimo di imposte non ci riuscirebbe perché comunque qualche violazione verrebbe trovata, le norme si contraddicono». Il problema non è più la cosiddetta “evasione da sopravvivenza”, né la difficoltà dei lavoratori autonomi a reggere il rischio d’impresa. Il problema ora è sopravvivere agli adempimenti fiscali: anche i più ligi non sanno come rispettarli, evasori a loro insaputa.Ora, vero è che l’Italia è una giungla normativa. Ed è altrettanto vero che le regole cambiano così spesso da costringere (chi se lo può permettere) ad affidarsi a costosi commercialisti. E però fin qui il governo di centrodestra ha riformato il fisco solo a parole. L’unica iniziativa concreta – applaudita dagli interessati – è stata l’estensione della flat tax al 15 per cento ai redditi fino a 85mila euro l’anno. Una manna per chi ci rientra, uno schiaffo ai lavoratori dipendenti con redditi superiori ai 28mila, ai quali lo Stato chiede – nella migliore delle ipotesi – più del doppio. Per capire la disparità di trattamento basta osservare la distribuzione del gettito Irpef: il 12,99 per cento degli italiani, coloro che dichiarano fra i 35 e i 55mila euro lordi l’anno, finanziano il 60 per cento dell’intero gettito Irpef. La relazione sull’economia sommersa di cui sopra scrive che l’estensione della flat tax, nata con l’idea di abbassare la propensione all’evasione, ha fin qui sortito l’effetto opposto. Il caso ha voluto – o forse no – che la relazione, già sul tavolo dell’allora ministro Daniele Franco, sia stata pubblicata solo dopo l’approvazione della legge di bilancio che ha esteso la tassa piatta.