Avvenire, 20 giugno 2023
Il fascino del Sol Levante
Madama Butterfly, opera che vede la luce nel 1904, si inscrive perfettamentec all’interno del fenomeno del giapponismo o japonisme, termine usato per la prima volta dal critico francese Philippe Burty nel 1873 per indicare l’interesse occidentale per il Giappone e la sua influenza sui movimenti artistici europei, sia nelle arti figurative sia in letteratura. Il giapponismo, che si situa dunque tra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, si diffuse con l’apertura commerciale del Giappone all’Occidente (1853), con il padiglione giapponese all’Esposizione Universale di Londra del 1862 e grazie alla missione Iwakura (1871-1873), quando alcuni funzionari giapponesi vennero inviati a esplorare l’Europa e gli Stati Uniti con l’obbiettivo di indagare i costumi e la cultura occidentali.
La protagonista dell’opera di Puccini, tratta dalla novella dello scrittore statunitense John Luther Long, è una perfetta eroina japonisante, in totale sintonia con altre protagoniste di testi che appartengono allo stesso filone. Cio-Cio-San, come Iris nell’opera di Pietro Mascagni o Madame Chrysanthème nel testo di Pierre Loti, sono delle prostitute che decidono di porre fine alla loro vita.
In Italia il giapponismo letterario si diffonde per contagio dalla vicina Francia, a cui appartengono due modelli japonisants
fondamentali: il romanzo di Pierre Loti Madame Chrysanthème, che ispirò a sua volta John Luther Long, e il testo di Edmond Goncourt La maison d’un artiste. Ad aver subito più dichiaratamente il fascino per l’oggettistica, gli abiti e l’atmosfera orientaleggiante, ad aver cioè aderito più spudoratamente al giapponismo in Italia, sono stati Matilde Serao e Gabriele D’Annunzio, entrambi debitori al testo di Goncourt, in cui lo scrittore francese descrive la sua abitazione nel quartiere Auteuil di Parigi, soffermandosi sui dettagli degli arredi di ispirazione nipponica.
Serao lo recensì nel 1881 su «Il fanfulla della domenica» specificando come gli oggetti presenti nel libro di Goncourt non appartengano alla “chincaglieria, di quella ignobile contraffazione europea che soddisfa i gusti dei borghesi arricchiti, ma alla vera e grande arte”. Lo stesso scrittore francese nel suo diario annotava che il gusto per la moda d’oriente si stava diffondendo troppo: “Si è propagato a qualsiasi cosa e a chiunque, persino agli idioti e alle donne della classe media”. Il testo di Goncourt è anche all’origine della novella di Gabriele D’Annunzio del 1884, Mandarina, la storia della Marchesa Aurora che in preda al fascino per il Giappone organizza a casa sua incontri tutti ispirati alla moda orientale. Le descrizioni degli ambienti dell’appartamento della protagonista sono in alcuni brani identiche a quelle che si ritrovano in La maison d’artiste, mentre è originale il tema della passione della donna romana per Sakumi, il personaggio giapponese inventato da D’Annunzio, che ritorna anche all’inizio del romanzo Il piacere quando i due protagonisti Andrea Sperelli ed Elena Muti si vedono per la prima volta. In questo momento cruciale della storia sono presenti a dire il vero due figure frutto dell’immaginario japonisant di D’Annunzio: Sakumi, appunto, e la principessa Issé, “che entrava con un piccolo passo incerto, vestita all’europea, sorridente dal volto ovale, candida e minuta”.
La passione di Gabriele D’Annunzio per il Giappone lo ha accompagnato per tutta la vita, ma si tratta di un interesse reciproco. D’Annunzio è stato tradotto e letto in Giappone, dove è considerato fonte di ispirazione per il grande autore della prima metà del Novecento Yukio Mishima che fu anche un suo appassionato traduttore. Attualmente una delle massime esperte dannunziane mondiali è giapponese: la critica letteraria Muramatsu Mariko. Il poeta pescarese nel discorso in onore di Toshio Kido (1936), un suo grande ammiratore, racconta di aver iniziato fin dal suo arrivo a Roma a collezionare oggetti d’arredo japonisants, che poi gli furono sottratti dai creditori, spendendo una fortuna nel negozio della signora Beretta in via Condotti, citato nella novella Mandarina.
Il negozio la signora Beretta compare anche in un articolo che D’Annunzio scrisse come suo esordio sul giornale «La tribuna» (1884) prendendo spunto dall’incontro fra il re d’Italia e il nuovo ambasciatore giapponese. Un anno dopo, nel 1885, su «Il fanfulla della domenica» comparve addirittura una composizione poetica del vate intitolata Outa occidentale. Anche in questo caso D’Annunzio era stato influenzato da ciò che accadeva in Francia: quello stesso anno infatti aveva scritto un lungo pezzo per la rivista «Domenica letteraria – cronaca bizantina» intitolato Letteratura giapponese in cui aveva recensito la raccolta di poesie di ispirazione japonisante di Judith Gautier: Poèmes de la libellule.
La sua Outa occidentale segue la metrica dei poemi nipponici e ricorre a immagini orientaleggianti, connotandosi come un ibrido, una sorta di trait d’union fra la letteratura italiana e quella giapponese. Sono molti, in effetti, gli autori italiani e alcune autrici, che negli anni a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento subirono la moda japonisante. Neiloro testi, però, alcuni di questi sono già stati citati, l’immagine del Giappone che emerge non solo è del tutto stereotipata, ma decisamente connotata da uno sguardo orientalista, attraverso il quale il Giappone diventa un paese in miniatura, in cui le donne sono oggetti, o meglio oggettini visto l’abuso dei diminutivi, e gli uomini sono goffi, per lo più destinati a essere elemento di scherno. Anche rispetto agli usi e ai costumi giapponesi, nei racconti italiani japonisants questi vengono riproposti con il solo risultato di ribadire pregiudizi sul popolo giapponese. Gli uomini, come si accennava, sono ridicoli. Nella novella Mandarina, la Marchesa Aurora, che come Luisa Cima è affetta da quello che si potrebbe definire una particolare forma di bovarismo japonisant, si è innamorata di un giapponese descritto da D’Annunzio in modo tutt’altro che attraente: Sakumi è inclinato naturalmente alla pinguedine, con un corpo troppo piccolo per il suo peso, le gambe corte, il colorito giallognolo, un viso disarmonico, con gli occhi venati di sangue. Quando ricompare all’inizio del romanzo Il piacere è vestito in modo ridicolo, perché indossa degli abiti occidentali e assomiglia per questo a un maggiordomo. Del resto la sua mancanza di eleganza, la sua brutalità, erano già emerse nel momento in cui, incapace di gestire la fase del corteggiamento con la Marchesa Aurora e privo di qualsiasi abilità sociale, le aveva risposto grossolanamente: “Je voudrais bien coucher avec vous, Madame!”.
Non c’è da stupirsi per questo tipo di rappresentazioni se, come scrive il critico letterario francese Tzvetan Todorov riguardo l’orientalismo in letteratura: “La donna è erotica, lo straniero è esotico”. Invece è singolare il tentativo che in Italia venne fatto per ristabilire il rispetto per il Giappone negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale: in un contesto storico in cui l’ideologia della razza era largamente diffusa e accettata, Benito Mussolini stringeva un patto con un popolo non bianco. Nel giro di pochissimo tempo, negli anni dal 1938 al 1942, la stampa cercò di adoperarsi non solo per sovvertire l’atteggiamento di superiorità nei confronti della cultura e del popolo giapponese (che negli anni del giapponismo destavano un grande interesse, certo, ma di stampo folcloristico, e venivano considerati inferiori), ma anche per mettere in risalto una certa somiglianza tra i due popoli. La studiosa Antonella Mauri, infatti, sottolinea come nei lunghi articoli che in quel periodo comparivano regolarmente su tutte le principali testate giornalistiche le foto che ritraevano persone giapponesi fossero scelte in modo da far supporre finanche una somiglianza fisica con le italiane e gli italiani. Nel 1941, infine, venne pubblicato il primo numero di “Yamato”, un mensile italo-giapponese su cui scrivevano grandi orientalisti e storici, che uscirà fino alla vigilia dell’armistizio dell’8 settembre 1943.