Ok Boomer! - il Post, 19 giugno 2023
La separazione delle carriere (tra comici e politici)
Perché i comici – per i quali la politica è legittimo argomento quotidiano, pane per i loro denti – non dovrebbero mai diventare essi stessi attori della politica? Per una ragione strettamente “tecnica”. Perché il linguaggio comico è un insieme di paradossi, iperboli, esagerazioni, deragliamenti logici che la politica non è capace di decriptare e non è in grado di reggere. Ci saranno pure politici che vanno a teatro, capiscono le battute e, come tutti, ridono. Ma “la politica”, intesa come quel mondo istituzionale e giornalistico, quelle dichiarazioni ufficiali, quelle parole messe in fila con prudente tatticismo, le battute non le capisce. Non è attrezzata per farlo. Non è quello il luogo.
Ai politici, peraltro, è vivamente sconsigliato di fare i comici: il loro ruolo pubblico non solo non lo richiede, ma lo sconsiglia. Essere re o buffone è la forma più irrimediabile, invalicabile, di separazione delle carriere. Le imbarazzanti barzellette di Berlusconi e le annose apparizioni al Bagaglino di illustri leader o ministri, più le altre occasioni televisive dove, magari con lo stesso abito plumbeo indossato a Montecitorio, le stesse cravatte di ordinanza, tentavano di “fare i brillanti”, costituiscono un repertorio penoso, nel quale la sola forma di comicità espressa è l’umorismo involontario: cioè rendersi ridicoli.
Se vi siete letti un po’ di dichiarazioni politiche, e cronache politiche, dopo la sortita di Beppe Grillo alla manifestazione romana dei Cinque Stelle, vi sarete resi conto che il misunderstanding è così totale, così irrimediabile, da far cadere le braccia. Esemplare, per la mancanza di capacità o di volontà di “tradurre” le parole di Grillo, è stata la dichiarazione di Alessio D’Amato, ex candidato del Pd alla presidenza della Regione Lazio. Ve la riporto per intero: «È stato un errore (di Elly Schlein, ndr) partecipare a una manifestazione che si è connotata con parole d’ordine inaccettabili: brigate, passamontagna. Anche no. Sono parole inaccettabili per chi arriva da una cultura riformista e di sinistra, che ha sempre combattuto queste forme di violenza verbale».
Che cosa aveva detto Grillo, di “inaccettabile” (ripetuto due volte nella dichiarazione di D’Amato)? Aveva detto – utilizzando, appunto, la sua lingua, che NON è la lingua della politica, anche se lui non lo sa – che bisognerebbe radunarsi in “brigate di cittadinanza” per aggiustare i marciapiedi. Il passamontagna era tirato in ballo per rincarare la dose – l’iperbole è un tipico attrezzo del linguaggio comico – ovvero per attribuire un’aura polemica di “clandestinità” al senso civico. Per la serie, molto “grillina”: siccome il potere non fa abbastanza per i cittadini, dobbiamo mobilitarci e fare da soli.
Ognuno può dubitare di questo assunto; adottarlo o contestarlo. Ma, con tutta evidenza, solo un cretino può riconoscere nelle parole di Grillo un rimando al brigatismo e alla violenza. I brigatisti tutto fecero, tranne aggiustare i marciapiedi. E siccome D’Amato non è un cretino, e anzi nel suo proprio ambito (la gestione dell’emergenza Covid) è opinione diffusa che si sia distinto per impegno e per capacità, dobbiamo concludere che per il “suo” linguaggio, che è quello della politica, il linguaggio di un comico è una lingua straniera, indecifrabile. “Sento la voce e non capisco le parole” (cit. David Riondino).
Ovviamente, a orientare l’indignazione di D’Amato, avrà contribuito la sua contrarietà alla presenza della segretaria del PD alla manifestazione dei Cinque Stelle: come è noto, la questione delle alleanze, da quelle parti, è di bruciante attualità, e dunque D’Amato è stato aiutato a capire male, a tradurre male, dalla sua ostilità al partito di Conte. Era, diciamo così, già predisposto, prima che a capire male, a pensare male.
Ma va detto che fior di cronache politiche (quasi tutte, direi) mettevano anche loro l’accento su “brigate” e “passamontagna” come riferimenti “estremisti”, “provocatori”, decontestualizzando totalmente il discorsetto di Grillo, o meglio contestualizzandolo nell’attualità politica: avrà voluto dare un avvertimento a Conte? Avrà voluto dare un avvertimento al Pd? Del resto: quelle parole non erano state pronunciate in un teatro. Erano state pronunciate in una manifestazione politica… Grillo spesso, anzi sempre, confonde i due ambiti, con grave detrimento di entrambi.
Fin qui, vi sarà forse sembrato che io voglia “difendere” Beppe Grillo. Beh, da un certo punto di vista sì: non ha detto, o non voleva dire, quello che hanno voluto fargli dire molte cronache, e molti politici. E invece, tornando all’inizio del nostro discorso (comicità e politica sono ambiti radicalmente differenti): io credo che Grillo abbia fatto un imperdonabile errore a “scendere in campo”. E che di quell’errore abbiamo pagato e stiamo pagando, come comunità nazionale, pesanti conseguenze.
Grillo è stato (ai tempi) un grande comico, acre, efficace, irresponsabile, coraggioso. Ma ha costruito, “scendendo in campo”, un colossale, ferale malinteso. Ha fatto credere (e forse ha creduto lui stesso) che una battuta, un paradosso, un’invettiva potessero essere materia di un progetto. Ha fatto credere a milioni di persone (anche a chi non capisce le battute, e sono la maggioranza, ahimè) che esista una maniera sbrigativa, “brillante” di cambiare le cose; e invece le cose, nella loro invincibile mediocrità, costituiscono l’inerzia contro la quale non basta il lavoro delle generazioni, lo studio delle generazioni, a invertire la rotta.
Il comico non è mai umile – è imbonitore, è un fool, è un artista – il politico deve invece esserlo, deve addentare la materia densa e indigesta della vita con metodo, con tenacia, con pazienza. Il grillismo ha la colpa (secondo me imperdonabile) di avere fatto credere a molte persone di essere Grillo: cioè di poter domare il mondo con una battuta. Ma il mondo, le battute, non le capisce.