Corriere della Sera, 19 giugno 2023
Il rapper Tedua ispirato dalla Divina Commedia
Sul fronte dei numeri, il 29enne rapper genovese Tedua aveva vinto prima ancora dell’uscita del suo ultimo album «La Divina Commedia»: il mese scorso il disco non esisteva ancora, ma il relativo tour nei palazzetti era già andato sold-out in poche ore, vendendo decine di migliaia di biglietti sulla fiducia e costringendo gli organizzatori a raddoppiare il numero di date. Tanta attesa è dovuta al fatto che l’album era stato annunciato nel lontano 2019, quando era soltanto un promettente emergente. Da allora, però, è stato un susseguirsi di ritardi, misteri e progetti collaterali, tra cui il suo debutto al cinema nel film «L’ombra di Caravaggio» di Michele Placido.
Risultato: «La Divina Commedia», un disco ispirato al poema dantesco (vedere le spettacolari copertine del maestro della fotografia David LaChapelle per credere), è diventato il più atteso e sospirato dai giovanissimi, e un’ossessione per il diretto interessato. «Mi sono preso i miei tempi, la pressione era tanta. Non a caso, quando finalmente il 2 giugno è uscito, lo stress era tale che ho avuto la febbre per giorni» confessa. Ne è valsa la pena, però: da due settimane occupa la prima posizione nella classifica degli album e in quella dei singoli, ed è stato certificato disco d’oro in meno di una settimana.
Il suo è un progetto estremamente ambizioso: non è facile traslare le tre cantiche (per il momento sono solo due, in realtà, perché il Paradiso arriverà più avanti) in un’epopea rap. Non a caso, c’è chi gli rimprovera di non aver tenuto abbastanza fede all’idea originaria: i riferimenti danteschi sarebbero troppo pochi. «In realtà la maggior parte sono impliciti» spiega, citando ad esempio «Hoe», una traccia con la partecipazione di Sfera Ebbasta: «Sfera rappresenta un dannato del girone dei lussuriosi, e insieme raccontiamo la movida del Club Inferno. Non volevo fare una parafrasi didascalica. So che il titolo dell’album è pretenzioso e che attira critiche, ma ho cercato di rielaborare il tema in modo personale. Anche perché ho fatto l’alberghiero, e Dante ho iniziato ad approfondirlo da adulto: un approccio da classicista non sarebbe stato appropriato per me». Il viaggio di Tedua si dipana attraverso la selva oscura della notorietà. «L’inferno corrisponde ai primi successi, quando la musica da passione è diventata un lavoro» dice. «Il purgatorio è la ricerca di se stessi in questa nuova dimensione: fai parte di un’élite privilegiata, ma devi scendere a compromessi con il mercato». Infine arriva la beatitudine, che è «imparare a stare al gioco, a trasformare le proprie fragilità in un prodotto. Il paradiso non è la perfezione, perché non esiste: è trovare un equilibrio». In «Bagagli» lo dice chiaro e tondo: «Mi sentivo affranto mettendo le mie insicurezze in vendita». Delle sue insicurezze Tedua non fa mistero: ha avuto un’infanzia complicata e per un periodo è stato dato in affido a un’altra famiglia. È proprio questo suo esporsi sul personale, oltre a una metrica che ricorda quella di jazz e slam poetry, a renderlo così amato.
«A volte scrivere è terapeutico, altre volte ti senti solo più vuoto di prima» osserva. In questo caso, però, gli è servito soprattutto a trovare una nuova e brillante direzione. O a uscire e riveder le stelle, per citare un suo illustre predecessore.