La Stampa, 19 giugno 2023
Intervista a Vittoria Belvedere
Di riconoscimenti, nella sua vita, ne ha avuti tanti. Tuttavia per Vittoria Belvedere il Premio Troisi, che ha ricevuto a Salina, ha un valore speciale perché arriva in un momento particolare della propria carriera: quello della sua svolta teatrale. Assente in tv da alcuni anni, Belvedere ha trovato il suo nuovo posto al sole sul palcoscenico, dove è reduce del successo della pièce Bloccati dalla neve.
Ha mai conosciuto Troisi?
«Sì, per Il postino: sapevo che stava cercando delle interpreti del Sud per il ruolo da protagonista e così mi presentai. Ricordo che Troisi mi guardò allibito e quasi non credeva che fossi calabrese, per via della mia fisicità androgina e nordica. Mi spiegò che cercava un altro canone di bellezza ma, vedendomi in imbarazzo e alle prime armi, mi rincuorò, aggiungendo che se avesse avuto bisogno di una nordica mi avrebbe contattata».
A Salina l’hanno premiata (cito) per la «sua capacità di caratterizzare qualsiasi ruolo, sia brillante che drammatico». Il teatro le ha permesso di sperimentare di più?
«Be’, mi ha aperto il mondo, meraviglioso, dei musical: ho imparato a cantare e ballare. Inoltre se in tv ho esordito con ruoli drammatici, dove interpretavo la ragazzina viziata e ribelle, qui ho avuto la possibilità di misurarmi con la commedia: mi piace l’idea di poter scrollarmi di dosso l’immagine della donna algida ed eterea perché in realtà io sono molto più buffa, una sorta di Pierina della situazione».
La sua ultima fiction è stata «Un caso di coscienza», nel 2013, poi più nulla: cos’è successo?
«È stato un insieme di cose. Io ho tre figli: Lorenzo, di 22 anni, Emma di 18 e Niccolò di 13. Le prime due gravidanze non le avevo programmate: quando arrivarono, ero ancora sotto contratto, quindi a quattro mesi dal parto ero già di nuovo sul set. Finii per perdermi un pezzo di vita dei miei figli. Con Niccolò ho voluto quindi fare una scelta diversa: mi sono presa un anno sabbatico e questo mi ha penalizzato. In tv funziona così: fintanto che sei in video, come attrice o ospite nei talk, esisti. Altrimenti…».
Altrimenti si sparisce?
«Già. Anche se io non lo sono affatto: semplicemente, ci sono in un modo diverso».
Pentita?
«No. Ero consapevole delle eventuali conseguenze. Inoltre mi è sempre pesato partecipare ai festival e ai party: questo "dover esserci" fa parte del gioco e, appunto, se non giochi alla fine resti in panchina. Certo, oggi mi farebbe piacere recitare in una serie tv ma quello che sto facendo mi sta comunque appagando: riuscire a riempire, ogni sera da dieci anni, il teatro è una grande soddisfazione».
Da bambina sognava già di recitare?
«No: volevo fare la stilista. Iniziai per caso a fare la modella e poi l’attrice».
Per caso?
«Sì. Accompagnai una mia amica a un provino per una campagna e… notarono me! Poi, in seguito, fu la mia agente Paola Petri a suggerirmi di fare cinema. Per me lei è stata una seconda madre in una città, come Roma, che mi adottò a soli 19 anni».
Quindi la solidarietà femminile esiste?
«Certo. Molte colleghe sono diventate mie amiche: Maria Grazia Cucinotta, Barbara De Rossi, Laura Pausini, Alessia Marcuzzi… Sarà che io sono poco ambiziosa e quindi mi circondo di persone simili a me».
Si considera una femminista?
«No. Le femministe hanno lottato per dei diritti importantissimi, che oggi abbiamo grazie a loro. Tuttavia diffido dalle posizioni rigide ed estreme: in fondo, senza gli uomini noi donne non andremmo da nessuna parte. Loro hanno bisogno di noi, e viceversa».
Ha mai ricevuto avance?
«Eccome. Anche, indirettamente, da Weinstein: alcuni suoi assistenti mi proposero di andare a cena per fare dei film con lui. Rifiutai. Come dicevo, non sono mai stata ambiziosa: se fallivo un provino, semplicemente passavo a quello dopo. Forse anche per questo mi veniva quasi facile dire "no": non mi interessava l’offerta».
Ma non è mortificante?
«Indubbiamente. È gravissimo sentirsi dire, come a volte mi è successo, che per fare carriera bisogna concedersi. Io ho sempre rifiutato ma resta l’ingiustizia. Per fortuna, grazie al #metoo, la situazione sta cambiando».
Da calabrese com’è stato crescere a Vimercate, in Brianza?
«Be’, Milano era un po’ snob e all’epoca i meridionali non erano ben visti. Per molti, io ero la "terrona": c’era chi diceva "non giocare con lei perché è terrona" o anche "non andare a casa sua". Io però mi limitavo ad alzare le spalle e a giocare con altri: non ci soffrivo perché avevo dietro una famiglia solida, ero piena di affetto».
Esistono ancora questi pregiudizi?
«No. O forse solo tra la gente ignorante».
Oggi i nuovi «terroni» sono i migranti?
«È complesso accettare altre persone in un Paese dove gli abitanti faticano a trovare lavoro. Credo che il problema sia sostanzialmente politico: li vogliamo ma poi non sappiamo gestirli, né garantire loro una dignità economica».