La Stampa, 19 giugno 2023
I diari spietati di Ettore Bernabei
Le voci da dentro scavano nella profondità abissale delle coscienze e ne estraggono di tutto: miserie, doppiezze, bugie, paure, segreti, nefandezze di ogni tipo. Avviene anche in politica, nelle storie e biografie non sempre encomiastiche dei partiti e dei loro leader e nel racconto a volte impietoso di certe loro vicissitudini. Così Ettore Bernabei, un grande manager democristiano, ogni sera scriveva impietosamente la cronaca del suo partito annotando fatti e misfatti senza nessuna indulgenza, fino a consegnarci anni e anni dopo un ritratto collettivo illuminato da poche luci e oscurato da un’infinità di ombre, a volte particolarmente cupe.
Ora quelle sue note vengono rese pubbliche (Ettore Bernabei, Diari 1956-1960, Rubettino) e ci restituiscono il mistero di un tempo lontano. È un racconto che comincia dall’ascesa di Fanfani alla guida della Dc, prosegue con la sua (prima) caduta, insegue la scalata di Moro alla segreteria di piazza del Gesù, piega pericolosamente con l’avvento di Tambroni a Palazzo Chigi alla guida di un governo di destra che scatenerà la piazza di sinistra e infine culmina con il ritorno governativo di Fanfani in vista dell’apertura verso i socialisti. Anni di crescita dell’economia, di incertezza della politica e di mutamento del costume. Uno dei periodi più convulsi della nostra vita repubblicana che Bernabei racconta con tratti impietosi verso il suo stesso partito.
Chi parla è il direttore de Il Popolo, il giornale della Dc. Non proprio la versione italiana della Pravda di sovietica memoria, ma quasi. Dunque, un insider, assai bene informato sui segreti di palazzo e inevitabilmente complice delle decisioni che il maggior partito dell’epoca è chiamato a prendere. Eppure Bernabei, vicinissimo ad Amintore Fanfani e amicissimo di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, tratta i suoi "amici" con una severità, quasi una ruvidezza, che non ci si aspetterebbe mai da chi era chiamato per dovere d’ufficio a dar lustro al suo partito.
Il fatto è che Bernabei si sente alfiere di una "sinistra" che ha vita grama nel suo partito. Egli è il cantore di una socialità in armi contro il dominio del capitale. Rivolge «una critica spietata all’illuminismo, alla democrazia di tipo francese e alle sue tare capitalistiche». E così, da un lato spinge il suo amico Fanfani a dissotterrare l’ascia di guerra e a dar battaglia contro i settori democristiani più conservatori. E dall’altro descrive il corpaccione doroteo che sta prendendo forma in quel periodo alla stregua di una conventicola di potere che può facilmente spingersi verso lidi avventurosi se non addirittura eversivi.
La Dc che racconta Bernabei è un partito oltremodo condizionato da interessi economici gretti, da influenze massoniche, da interferenze straniere occulte e via raccontando, sospettando e qualche volta fantasticando. Una sorta di Todo modo in cui non scorre il sangue ma c’è tutto il resto. I suoi dirigenti vengono dipinti con tratti impietosi. A volte con ironia, a volte con ferocia, sempre con una sorta di imprevisto disincanto. Così Colombo e Rumor, leader a quel tempo in ascesa, vengono etichettati l’uno come "il chierico ricreazione" e l’altro come "il chierico tristezza". Per non dire di Taviani, di Scelba, di Segni, ritratti attraverso certe loro piccolezze, qualche volta infierendo, qualche volta alludendo e qualche altra volta svelando. Perfino i funerali di don Sturzo vengono raccontati con tratti impietosi: «Generale confusione della fiera di vanità di tutte le canaglie della destra clericale e padronale, che da venti giorni si mettono in mostra intorno al malato e alla salma per farsi dare il bollo della reazione. Il feretro è passato nella generale disattenzione della popolazione, che non sentiva più lo scomparso nella sua anima e forse non lo ha mai amato. La sinistra cattolica ha dato un esempio di coerenza, disertando i funerali, a cominciare da Fanfani, che di malavoglia mandò un telegramma».
Ce n’è anche per Moro. Nel pieno della crisi di sistema aperta dalla forzatura di Tambroni che ha appena varato un governo con l’appoggio del Movimento Sociale, una sera il segretario della Dc chiama al telefono e chiede: «Bernabei, buonasera, che c’è di nuovo? Io vorrei uscire per andare al cinema con le bambine». E l’indomani, domenica 10 aprile, Bernabei annota con una punta di perfidia: «Moro anche stasera è andato al cinema».
Un altro giorno Bernabei e Moro si trovano a viaggiare sullo stesso treno, diretti a Milano per un evento elettorale. «Si parla di film - annota l’autore - e si fa un raffronto tra la scabrosità delle pellicole italiane e occidentali (tipo Rocco e i suoi fratelli) e la purezza di certe pellicole sovietiche (tipo La ballata di un soldato)». E Moro commenta che «un regime, sia pure di quella natura, malgrado tutto si preoccupa, anzi impone, che siano rispettati i valori morali e della famiglia».
Nel frattempo girano soldi, affiorano ricatti, si svelano trame inconfessabili. Elemosinieri grandi e piccoli si danno da fare per far deviare i percorsi politici nella direzione più utile. E lo scontro tra i partiti e le loro correnti sembra perdere quei tratti di nobiltà ideale che pure ebbe a lungo dalla sua. È la cronaca di un Paese a sovranità limitata a cui la politica, nelle parole di Bernabei, offre una direzione che appare sempre titubante. Forse più titubante di quanto in realtà non sia stata.
Il fatto è che tutto il lungo e minuzioso racconto di Bernabei, fitto di annotazioni impietose sulla classe dirigente del suo tempo, è come segnato dall’idea che il potere democristiano risulti alla fine troppo fragile per essere duraturo e troppo piccino per poter essere giudicato con generosa indulgenza. Non ha la grandezza dei suoi ideali ma neppure la forza dei suoi consensi. Ricorre di continuo nelle sue pagine l’evocazione di un secondo partito cattolico che prima o poi porterà i democristiani conservatori a formare un blocco d’ordine sulla destra e i democristiani progressisti a liberarsi dalla tutela degli interessi economici e delle logiche di mercato. Tutte cose che non si realizzeranno, come è noto. Ma che danno l’idea di una contesa lacerante che avrebbe potuto portare verso direzioni impensate.
La Democrazia Cristiana che racconta Bernabei è un partito in affanno, poco convinto di sé, incapace di darsi una disciplina, condizionato da interessi economici destinati a sottometterlo e a snaturarlo. Le correnti moderate vengono considerate al servizio del capitale e (assai spesso) della massoneria. E il modo in cui gli uni e gli altri si danno battaglia evoca cronache da basso impero. Con più di qualche eccezione, s’intende. Ma anche con un rosario di meschinità e piccolezze che sembrano quasi preannunciare il declino che si produrrà più di vent’anni dopo.
A questo quadro a tinte fosche si sottrae quasi solo Fanfani, l’eroe eponimo della saga di Bernabei. Il suo amico lo segue nei suoi infiniti alti e bassi. Lo sprona, lo rassicura, lo conforta. Ne ammira l’energia e la visione. Ne corregge certe intemperanze. Soprattutto, cerca di metterlo al riparo da quelle vorticose cadute nello sconforto che furono spesso il contrappunto di un carattere tanto energico e volitivo. È la cronaca di un’amicizia paritaria a dispetto del loro diverso rango politico. Si intuisce che il consigliere vuole essere devoto al principe senza però mai eccedere nella disciplina. E la lunga abitudine a darsi del lei, alla vecchia maniera, sembra quasi suggellare una sorta di equilibrio emotivo che regolerà a lungo i loro rapporti.
A volte affiorano tratti di cronache impietose e giudizi tagliati con l’accetta. Quando il leader mostra segni di pessimismo, il suo consigliere ne fa carico alla moglie, «elemento inconsapevolmente deleterio», «piccola borghese lombarda, priva di una profonda spiritualità e di una larga cultura». Giudizio così impietoso e definitivo che avrebbe potuto porre fine a un’amicizia o piuttosto suggellarne l’indistruttibilità.
Alla fine di centinaia di pagine di ricordi così scabrosi, e in attesa del sequel, al democristiano che è in me viene da fare due considerazioni un po’ contraddittorie. La prima è che se un insider così addentro distilla cronache tanto severe vuol dire che forse quell’età dell’oro che ci siamo andati raccontando aveva qualche magagna in più di quanto ci venga solitamente di pensare. La seconda è che però un partito così incline a guardarsi dentro in modo tanto impietoso doveva avere nascosta in sé una virtù che la nostra modernità ha finito per perdere - a sua spese, peraltro.
Infine, arriva ogni giorno dalle nostre parti la cronaca del presente che magari rende ora a quel passato il suo onore postumo.