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 2023  giugno 19 Lunedì calendario

Intervista a Michelangelo Pistoletto

Novant’anni non sembrano poi così tanti se hai sempre vissuto d’anticipo. Michelangelo Pistoletto li compie il 25 giugno e prepara una festa alla Città dell’arte di Biella. Lui da giovane si è allenato con la pubblicità senza il timore di perdere la vena artistica, ha anticipato i selfie di più di 40 anni, ha trovato l’icona perfetta per nostra signora dell’ecologia decenni prima che venisse riconosciuto il riscaldamento globale. Oggi teorizza la pace preventiva e ha strizzato un infinito in tre cerchi per darle un segno universale. E da quasi 60 anni sta con la stessa donna, Maria Pioppi, convinto che senza fedeltà l’amore non abbia proprio il tempo di esprimersi. Forse proprio per questo i suoi 90 anni li vive benissimo.
Esposto in ogni museo del mondo, ha in corso una mostra italiana, a Roma, al Chiostro del Bramante, in attesa dell’appuntamento di novembre, al Castello di Rivoli. Famoso soprattutto per i quadri a specchio che hanno invitato lo spettatore a entrare nell’opera e, prima di diventare divertiti autoscatti negli ultimi lavori, sono stati vera rivoluzione all’inizio dei Sessanta, gli anni in cui si è fatto un nome e lasciato un’eredità, una forza d’attrazione.
Se oggi si specchia in una delle sue opere che cosa vede?
«Vedo quello che c’è stato e quello che siamo e quel che possiamo fare meglio».
Quale è stato il momento creativo che ha segnato al sua carriera?
«Quando ho realizzato il primo quadro nero specchiante e ho visto che la rappresentazione della realtà non era più fissa, statica, ma dinamica, esattamente come tutto quello che cerchiamo nella modernità. Con ogni scoperta: il cinema, internet, vogliamo andare oltre la fissità dell’immagine».
Ricorda il momento in cui ha avuto l’intuizione?
«È successo in un attimo, lo spazio e il tempo sono entrati dentro l’opera. C’era l’infinito, ma fatto dell’esistente, di esseri umani. Persone reali. La concretezza mi ha travolto».
Arte povera, un movimento in cui ancora si riconosce?
«L’ho iniziato io, come potrebbe essere altrimenti? L’etichetta critica Arte povera è del 1967, i quadri specchianti sono arrivati prima. È una corrente che ha la qualità di dialogare con la scienza, per questo è durata e con un lascito importante».
I quadri specchianti sono davvero antenati del selfie?
«Sì, certo, non mi dà affatto fastidio che siano definiti così: lo spettatore diventa protagonista, entra in scena».
Non siamo diventati troppo protagonisti?
«Non si entra mai abbastanza al centro dell’azione, sarebbe meraviglioso se tutte le persone volessero entrare in uno specchio invece di stare in un angolo, siamo parte integrante dell’universo, dobbiamo partecipare, metterci in relazione».
Più che altro la tendenza è mettersi in primo piano, non le sembra?
«Può darsi, ma l’uomo ha il potere di creazione. Può pensare e fare meraviglie, magari il primo istinto è vedersi riflessi, però da lì si può andare oltre, l’arte può insegnare a farlo almeno è quello che ci proponiamo di fare alla Città dell’arte che abbiamo creato a Biella, dove nel 1991 ho acquisito un lanificio dismesso e da un sistema industriale abbandonato è nata nuova attività. Oggi rigenerare è nostro compito, per questo ho inventato il simbolo del terzo paradiso, che è poi un infinito fatto di tre cerchi: alle estremità ci sono i due elementi uno opposto all’altro e al centro si devono mescolare. Lo possono fare in armonia o in modo distruttivo, sta a noi».
Quindi il futuro dipende dal libero arbitrio?
«No, no, no bisogna essere organizzati, a questo servono la politica, la scienza, la filosofia, l’arte: ad educare alla responsabilità personale».
A 90 anni l’intelligenza artificiale che effetto fa?
«Rispecchia l’intelligenza umana, con possibilità moltiplicate, è una straordinaria accumulatrice di memoria. È una tecnologia, sta a noi capire come usarla».
Non c’è il rischio che prenda il sopravvento?
«Noi siamo da sempre dio e diavolo, non lo scopriamo con l’intelligenza artificiale. Non diamole colpe che non ha».
La Venere degli stracci è del 1967, oggi è un’icona ecologica. Anche lei la guarda diversamente?
«Io l’ho sempre guardata così: la Venere sta lì a far risplendere il degrado, rivitalizza i panni smessi e oggi l’unica cosa che possiamo fare è riabilitare ciò che abbiamo danneggiato. È il momento di passare al setaccio il processo produttivo e ricreare un rapporto con la natura».
Lo stiamo facendo davvero?
«Eh, io ci ho messo una Venere, un elemento divino. Per aiutarci, guidarci. Alla fine degli Anni Sessanta eravamo lontani dal concetto di inquinamento acquisito oggi, adesso la mia Venere è la fotografia di una montagna africana trasformata in discarica di abiti usati dall’Occidente, ma allora aveva la stessa potenza e uguale scopo, anche se il contesto era meno evidente».
È questo il compito dell’arte, anticipare?
«Intuire, sì. E capire se l’intuizione si traduce in possibile azione. Ancora un’affinità con la scienza che spesso nell’errore trova la formula».
Dove stava l’errore nella Venere?
«Per difetto, interpretava un problema, anticipava una paura, ma è andata molto oltre: è l’immagine della contemporaneità».
Ha ritratto come una Venere anche sua moglie Maria. In uno specchio ovviamente. Sposata nel 2017, a Cuba, dopo un fidanzamento lungo più di 50 anni. L’ha venerata?
«Siamo una dualità essenziale, non potrei mai vivere solo. Tra due persone le possibilità di intesa sono infinite e noi le abbiamo vissute sempre al massimo grado».
Sempre?
«Sì. Se ci fosse solo il lato bianco non sarebbe vita, però abbiamo abitato i contrasti con le discussioni. C’è il bianco, il nero e tanti colori in mezzo: se appena cambia gradazione uno scappa allora non è intesa».
La Città dell’arte è pensata per giovani creativi, quelli che passano di lì le dicono che l’Italia è un Paese per vecchi?
«Non è un posto che chiama il lamento e poi sarebbe assurdo dirlo a me, io non mi comporto così. Credo nei giovani, solo non è giusto aspettarsi ogni soluzione da loro, senza una scuola non possono e più che lo spazio per esprimersi, manca loro la trasmissione del sapere».
Nato a Biella nel 1933, vissuto a Torino, tornato alla città di origine nel 1991. Non ha mai avuto voglia di vivere altrove?
«Non ne ho mai trovato la ragione ma ho frequentato altri luoghi. Non mi sono mai mosso da turista, è la mia opera che mi ha portato per il mondo, a suo modo ogni volta un trasloco e un legame. New York, Parigi, Pechino, l’estremo Sud delle Americhe. Oggi la Città dell’arte ha 240 ambasciate sparse».
Quale è il luogo che l’ha sorpresa di più?
«Lo stupore lo trovi ovunque, è l’essenza dell’amore: sorprendersi ogni giorno in due».