Il Fatto quotidiano, 19 giugno 2023
Anita, la metà meticcia delle Camice rosse
Mentre l’estrema destra al governo risucchia le parole del Risorgimento (patria, nazione…) nel gorgo nero della loro degenerazione fascista, e mentre l’intero Paese viene obbligato a inginocchiarsi a chi, come scrive la Società delle storiche, “ha legittimato, nella comunicazione e nei comportamenti pubblici, la reificazione e la mercificazione delle donne e dei corpi femminili, esaltando una maschilità patriarcale e paternalistica e contribuendo così a rallentare, e in qualche caso addirittura a invertire, il percorso verso una società più paritaria e rispettosa delle differenze di genere”, il film di Luca Criscenti su La versione di Anita, nelle sale in questi giorni (domani al City di Ravenna, con Maurizio Maggiani; dopodomani a Firenze, Astra, con chi scrive; giovedì al Moderno di Rieti, con la protagonista e con la nipote di Anita), è una straordinaria boccata di ossigeno. Basato su un solido impianto storiografico (la sceneggiatura è, con Daniela Caselli, della storica Silvia Cavicchioli, autrice del libro Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi), il film riporta in vita, a due secoli dalla nascita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, la moglie non italiana e non bianca di Giuseppe Garibaldi.
Alla ricostruzione storica, rigorosa e godibile, si intreccia un’attualizzazione particolarmente riuscita, e felice. Anita (una smagliante Flaminia Cuzzoli) si concede in una lunga intervista radiofonica a Marino Sinibaldi (perfettamente sornione, nel ruolo di se stesso), costruendo così una linea narrativa in prima persona che cuce interviste (meravigliosa quella a un ispiratissimo Maurizio Maggiani), testimonianze dei discendenti (una commovente Annita Garibaldi Jallet), riprese nei luoghi cruciali di qua e di là dall’Oceano (da Porto Alegre a Nizza, passando per l’Urugay), citazioni dalla tradizione filmica del Novecento (l’Anna Magnani di Camicie rosse di Goffredo Alessandrini, 1952). Il risultato è inaspettato: la forza di un vero film, l’affidabilità di un documentario storico.
È la chiave sentimentale ad avvincere lo spettatore allo schermo, perché – dice Maggiani – “Anita non poteva conoscere né la paura né l’esitazione. Lei andava… la sua vita era andare. Viveva una vita di grandi sconvolgimenti, di rivoluzioni. E forse aveva preso per sé una parte di questi sconvolgimenti e una parte di queste rivoluzioni. Questo può farla pazza? Sì. Ma che importa. Ma davvero si può pensare che si possa fare la rivoluzione senza essere pazzi, vivere un grande amore senza follia. La follia è insita all’amore, come è insita alla rivoluzione”.
Ecco il punto: la rivoluzione. Non l’eroina di un Risorgimento etnico (e come poteva, lei meticcia?), ma la camicia rossa che prefigura la Resistenza, nonostante il tentativo di Mussolini di sequestrarla nel monumento che egli inaugura, nel 1932, con un discorso da cui si capisce l’imbarazzo di fronte a una figura ontologicamente inconciliabile con il ruolo di “fattrici” cui il fascismo relegava le donne italiane. Anita in quel monumento non la riconosciamo, e neanche lei si riconosce. “Hai visto cosa hanno fatto a me dopo la mia morte? Mi hanno messo su un piedistallo”, le dice Giuseppe. E Anita risponde: “Tu almeno sei l’eroe. E io? Una figura esotica, la donna del capo, devota al suo uomo fino al sacrificio. Credevamo nelle stesse cose. Ma io non sono come mi hanno raccontata”.
Nonostante tutto questo, Anita non è andata perduta. In una scena bellissima del film, sulle immagini di Anita che passeggia al Gianicolo, nella luce serale, con i busti dei garibaldini che la seguono con lo sguardo, la voce di Silvia Cavicchioli ricorda che “Anita non è stata sepolta dalla retorica fascista. La Resistenza non l’ha dimenticata. Tante partigiane, non solo nelle Brigate Garibaldi, hanno scelto Anita come nome di battaglia. Poi il regime è caduto l’Italia è diventata una Repubblica, come Garibaldi ed Anita hanno sempre voluto. Renata Viganò, l’autrice de L’Agnese va a morire, ha scritto di lei parole bellissime: “Un cammino intessuto di gloria e di dolore, di felicità e di patimenti, una meravigliosa avventura pagata con l’ardire, una lotta precisa, cosciente, intrapresa su un ampio bisogno di giustizia, l’oppresso contro l’oppressore, il popolo contro la tirannide”. È proprio qui che Anita parla ancora a noi, oggi: oggi che oppressori, tirannidi e bisogno di giustizia sono ancora più forti che non ai tempi di Anita Garibaldi. E proprio per questo il film (che ha conquistato la menzione speciale al Festival internazionale di cinema di Punta del Este, Urugay), il 7 giugno è stato presentato al Festival internazionale dei diritti umani di Buenos Aires (fuori concorso): “E questa idea di Anita paladina dei diritti umani – dice il regista Luca Criscenti – mi piace moltissimo”. Eh, sì: piace tanto anche a noi!