Tuttolibri, 10 luglio 2023
Da "Paradiso e naufragio" di Massimo Cacciari (Einaudi)
Càpita che nelle svolte della vita, che quasi sempre avvengono alla fine dell’adolescenza, si compiano delle scelte drastiche e «irrimediabili» destinate a orientare tutto il nostro modo di essere al mondo. Queste «scelte» possono riguardare amicizie e luoghi, addirittura colori e suoni, e così anche letture. Per me fu quella di Musil (e Kafka) contro Thomas Mann. Eppure Mann era «venuto prima», le vecchie edizioni Mondadori stavano nella piccola biblioteca dei miei, il suo Doktor Faustus mi aveva introdotto alle antinomiche fascinazioni dell’«avanguardia». Ma, letto L’uomo senza qualità si imponeva la decisione, o Mann o Musil. Da un lato il «grande scrittore», colui che dispone della fermissima fede di essere il rappresentante della sua lingua e di quanto di più alto e nobile essa abbia saputo esprimere; dall’altro, il più intelligente e spietato analista del compimento, anzi: della catastrofe, di ogni Bildung o paideia su cui la Kultur europea era andata formando, almeno da Rinascimento e Riforma, la propria autocoscienza. Da un lato, l’idea che al di là di ogni salto o interruzione si potesse sempre re-intrecciare il nostro rapporto con la Goethe-zeit e ascoltare in questa chiave, in fondo, gli stessi Schopenhauer, Nietzsche e Wagner; dall’altro, l’amaro disincanto che una crisi era avvenuta e irreversibile, e che ogni tentativo di «sanarla» o ritardarne gli esiti, era destinato a priori a fallire. Un intero mondo «viveva la propria morte» ben prima della Grande Guerra; era ferito a morte senza saperlo o cercando in tutti i modi di nasconderselo. In due forme fondamentali si esprimeva questo cupio dissolvi. Vi era il mondo dei «grandi progetti», ruotanti in fondo intorno a questo solo problema: come frenare l’irrefrenabile, come impedire l’inesorabile. E vi era il suo apparente opposto: quello dei fanatici, degli entusiasti, di coloro che avrebbero desiderato accelerare l’apocalisse, di coloro che nella miseria dei tempi spiavano e fantasticavano le tracce della venuta di nuovi dèi. Vi era il mondo di una «razionalità allo scopo», incapace ormai di ogni realistico «calcolo» delle forze che si erano scatenate; e vi era quell’altro, che disprezzava il «calcolo», la ragione calcolante (ratio ha per l’appunto questo significato), ed era perciò altrettanto lontano del primo da ogni possibilità di tenere in forma l’epoca e ancor più di immaginarne una nuova. Il mondo pseudo-realistico che vorrebbe conservare ciò che è infranto per sempre e il mondo che insegue libertà disincarnate, che astrattamente oppone il dover essere alla dura prova dell’esistenza – entrambi, insieme nel loro stesso opporsi, portavano alla catastrofe di una civiltà, per la quale Musil, a differenza di tanti altri mitteleuropei suoi contemporanei, non prova nostalgia, semmai com-passione, nel senso letterale del termine.
Il «grande scrittore» può pensare di poter ricomporre grazie alla stessa «grande forma» della sua narrazione queste contraddizioni e queste lacerazioni. Egli è il regista che ne dirige le dissonanze, ne governa le pulsioni distruttive, le armonizza in una sorta di «democrazia». Non Musil: la sua opera è aperta per necessità, è saggistica nella sua essenza, procede come un grandioso experimentum crucis. Non si dà soluzione né conciliazione delle antinomie dell’epoca, non si dà intesa tra le sue figure che non sia un continuo fra-intendersi. Se «soluzione» v’è, essa si trova al di fuori di questo mondo e dei suoi linguaggi. Se «soluzione» v’è, sarà in un “viaggio in Paradiso” che non si compirà mai e che si amerà proprio in forza della sua assenza.
Il personaggio di Musil non è più il borghese, non è più l’artista, non sono più né il rappresentante della Zivilisation né quello della Kultur. Chi comprende l’insanabilità dell’epoca è il matematico Ulrich: l’intelligenza matematica uscita per sempre dal mito della esattezza da ricercare nella stessa forma in ogni campo, intelligenza statistico-probabilistica, che tiene lo sguardo ben fermo sulla cosa, pur consapevole che essa sarà sempre considerata da molti e distinti punti di vista, e mai potrà essere conosciuta simultaneamente in tutte le sue parti così da determinarla nella sua essenza. Ai fanatici dell’anima e dello spirito fa da controcanto quella idea di Scienza, anch’essa appartenente al mondo di ieri, che vorrebbe urbi et orbi imporre un paradigma causale-deterministico di spiegazione della natura (di cui l’Io e il suo inconscio fanno parte). È invece nella prospettiva di una matematica critica che Musil comprende l’apocalisse.
Questa prospettiva implica la dolorosa consapevolezza sui limiti del proprio linguaggio. Per quanto si debba cercare di dire con la massima chiarezza, il linguaggio non riuscirà mai ad apparirci davvero conforme alla idea che intendevamo esprimere né la sua forma adeguata alla cosa che con esso indichiamo. Il linguaggio traveste i pensieri, dirà Wittgenstein; dall’abito non potremo mai concludere al pensiero che esso riveste. Il linguaggio, potremmo dire, ri-vela, dice nascondendo e nasconde dicendo. E la cosa ha una vita in sé che mai esso riuscirà a dis-velare. Il pensiero e la scrittura di Musil si agitano tra Wittgenstein e la Lettera di lord Chandos di Hofmannsthal. Ma mentre il personaggio del racconto di Hofmannsthal finiva disperato, per Musil rimane necessario cercare di dire, approssimandolo con la massima precisione possibile, anche l’indicibile, di pensare anche l’impensabile. Così come vivendo siamo costretti a cercare di trovare la via anche nelle tenebre.
Alla vigilia delle tenebre agiscono senza davvero agire, operano senza costruire opere, le figure del grande romanzo. L’intelligenza, l’ironia nel senso etimologico del termine, cercano la via che sanno di non possedere. Realisti e fanatici credono invece di possederla e la corrente li trascina e basta. È un mondo che vede disfarsi le proprie forme culturali, giuridiche e politiche; un mondo in cui l’Auctoritas, che si vorrebbe celebrare, è crollata, ma nessuno intende affrontare la crisi con sobrietà, disincanto, coscienza dei propri limiti. Nulla renderà irreversibile una tale crisi quanto i vani tentativi di frenarla e contenerla attraverso le retoriche dell’epoca in cui il mondo che oggi tramonta sembrava trionfare. Resistere in ciò che è morto non aiuta neppure sopravvivere.
Quanto si chiacchiera oggi d’Europa o di finis Europae o di rinascita, anche, a seconda di gusti e di mode. Non è forse già concluso con Musil questo discorso? così parve a chi lo lesse da ragazzo e si «decise» per lui una volta per sempre.