la Repubblica, 18 giugno 2023
Reportage dal Kashmir
Incontro K. in una pasticceria lungo il fiume Jhelum, dove qualche anno fa sono annegate 300 persone durante un’alluvione. Anche K. esonda, ma di parole. Ha bisogno di raccontarsi a qualcuno che non sia di qui. Gli è proibito volare via dal Kashmir e nella conversazione si percepisce l’urgenza di far passare un altro messaggio oltre a quello della Srinagar ripulita, della smart city promessa dal governo dei nazionalisti indù che occupano militarmente molti quartieri tranne quello dove mi conduce, tra viottoli oscuri e stretti che si schiudono in piazzette luminose dense di botteghe e di artigiani.
«Noti dei soldati?» mi chiede quest’uomo di altezza media, spalle dritte e muscoli nervosi, viso dallo sguardo terso e acuto.
«No, in effetti non ce ne sono».
«Perché hanno paura. Qui non entrano. Li prenderebbero subito a sassate».
K. cammina veloce tra le botteghe attorno alla moschea principale della capitale. Mi offre mandorle, zafferano, noci e altre spezie. Saluta con deferenza un signore con la barba bianca, che ricambia ilsalaam aleikum. «Era uno dei comandanti più importanti della nostra rivolta», dice.
Cammina tanto veloce quanto parla. «Vent’anni fa, quand’ero ragazzo, queste strade straripavano di mujahidin. Eravamo centinaia. Tutti a gridare che volevamo la libertà. Una generazione oggi depressa, schiacciata, con problemi psicologici: ci sentiamo disadattati. Soprattutto chi come me è nato negli anni ’70 e negli anni ’90 era un ventenne che credeva nell’indipendenza del Kashmir dall’occupazione indiana. Poi è iniziata la repressione dura. Mio fratello è stato preso e…», K. indica l’inguine e fa un gesto come se fosse un pizzicotto, «…gli hanno dato le scosse elettriche nei genitali. Anch’io sono stato arrestato e torturato tre volte. Vedi quella caserma? Qui è dove è iniziato tutto. Dove sono stati sparati i primi colpi negli anni ’80».
Ci credevano. Erano in tanti. Era prima delle influenze dei fanatismi, dice. Parla dell’Isis. «Sono arrivati anche qui. Un gruppetto. Li hanno ammazzatisubito. Sono durati pochissimo. Sunniti, sciiti, le differenze ci sono. Ma esacerbate da alcuni mullah».
Per le strade vedo poster del gotha della leadership storica iraniana e sciita: l’Ayatollah Khomeini, Khamenei, addirittura Rafsanjani che a Teheran è ormai inviso da tutti, ma qui ancora si nota nei cartelloni il suo viso smunto con la barba rada. Si scorgono anche le effigi del generale iraniano Soleimani, ucciso da un blitz degli americani. Certo, si capisce perché Washington ha rinnovato la proibizione ai cittadini americani di viaggiare qui nel Kashmir. Molti Paesi europei suggeriscono ai turisti di non venire in Kashmir, come anche la nostra Farnesina. Troppo rischioso, nonostante gli sforzi di Delhi di dare una ripulita per il G20 del mese scorso.
«I soldi degli iraniani? Certo che arrivano. I mullah vanno a studiare a Teheran e tornano ben indottrinati. È un fatto, non lo dico perché sono cresciuto in una famiglia sunnita. Mia madre è nata da questo lato dalla grande moschea di Jamia Masjid, che è dove sono iniziate tutte le proteste, nei secoli, dove è ancora proibito il sermone del venerdì. Temono possa sobillare gli animi, far partire un’altra ribellione. Ma mi dica lei, come la trova Srinagar, così a lustro per il summit?».
«All’aeroporto – rispondo – ho visto un cartello: “Benvenuti nel paradiso terrestre”. Poi c’erano due soldati piantonati per ogni strada, e tanti posti di blocco. Un cartello diceva: “Sospetta di tutti, rispetta tutti, perquisisci tutti”. Messaggio strano per un paradiso terrestre. C’è qualche contraddizione, no?».
«Per preparare il summit del turismo, boicottato da Cina, Turchia, Pakistan e Arabia Saudita, hanno arrestato quelli che pensavano avrebbero potuto creare problemi. Alcuni li hanno torturati. Preventivamente. Hanno dipinto di blu i bunker chiamandoli “smart bunker”, per la smart city che hanno promesso. In una foto si vede un fortino blu coperto da un poster. Dietro c’è un gurkha armato che spia tramite un foro. Turismo sì, ma con la pattuglia armata!».«Non ha paura di parlare così apertamente di questi temi?», chiedo accorgendomi che, stranamente per l’India, attorno c’è molto silenzio.
K.. indica i ragazzi lungo il fiume. «Parlano tutti sottovoce, come nella Germania dell’Est, come in quel film,
anche qui tutti spiano tutti e si parla sempre sottovoce. Non eravamo così. Ci hanno terrorizzati. Ma io me ne frego e parlo forte! Tanto sanno benissimo come la penso».
«L’altro giorno ho visto gruppetti di ragazzi a Ponte Zero, il ponte di legno dove si ritrovano a cantare», osservo, «mi sono sembrati sereni e disinteressati alla politica».
«Sono degli scemi hipster, dei drogati. Quel ponte è una pubblicità degli induisti. Serve a reclamizzare la “nuova Srinagar”. Ridicolo. Le cose stanno diversamente. Qui vicino, guarda, lì, ecco, lì c’era un parco dove si ritrovavano le nuove generazioni. I ragazzi cantavano canzoni politiche. La polizia li ha fatti sloggiare. Arresti e torture. Il solito. Ora è tutto underground. Ci sono tante correnti, flussi. Un po’ li trovi online, se sai dove cercarli, il resto sono in clandestinità con concerti improvvisati. C’è tanta paura. Ma ci sono ancora molte canzoni di protesta che ci ispirano. Però non possiamo farle ascoltare in pubblico perché veniamo zittiti. O arrestati. Cerchiamo di farci sentire con la critica, l’arte, il ragionamento. E funziona perché la complessità intellettuale vola al di sopra della capacità di comprensione del rudimentale funzionario indiano medio. La situazione però è grama. Ma il Kashmir è da millenni che attraversa stagioni come queste… Tornerà il nostro momento».
I dati confermano ciò che riferisce K. sulla droga pesante. Le file per il metadone fuori dall’Istituto per la Salute mentale e le neuroscienze, unico centro statale per tossicodipendenti, sono sempre più lunghe. «Cannabis e altri oppiacei ci sono sempre stati», assicura il dottor Yasir Rather, psichiatra del centro. «Ma non s’era mai vista così tanta eroina. Fino a 10 anni fa registravamo dai 10 ai 15 casi al giorno di eroinomani. Oggi dai 150 ai 200, quotidianamente. È allarmante». K. ha ancora tanto da raccontare. Schiviamo taxi Ape Piaggio e sciami di passanti. Corriamo tra i viottoli polverosi della casbah, che nei suoi occhi è ancora piena di mujahidin urlanti, come quando era più giovane, finché giungiamo alla moschea di Khanqah-e-Moula sulle rive del Jhelum. Scendiamo lungo le scalinate. Mi fa cenno d’avvicinarmi a un cancello affacciato sul corso d’acqua.
«La riva a gradoni è nuova, rifatta con i soldi pubblici. E vedi il muro su cui poggia la moschea dipinto con i colori della bandiera indiana? È una provocazione dei
pandit (dotti, ndr )
induisti del Kashmir. Vengono qui a fare le cerimonie. A ridosso della moschea! Io penso che quando agli inizi degli anni ‘90 dozzine di
pandit
induisti furono massacrati dai musulmani e 100mila cacciati in esilio fu un orrore. Ora capiamo cosa vuol dire questa repressione. Siamo noi costretti all’esilio. Quindi non ho alcun sentimento di rabbia verso di loro. Ma ora ci pittano i muri della moschea con i loro colori? È una provocazione. Cercano lo scontro». Ripartiamo per le strade piene di carretti. Compra delle fritture, me ne offre. Sono gustose. Mi guardo attorno, continuo a non vedere i soldati che affollano invece il resto di Srinagar, finché, in fondo a una stradina, sbucano due gurkha e un bunker con altri tre Guerrieri della pace, o i Crpf, i 300mila agenti delle Forze di polizia della riserva centrale che rispondono al ministero degli Interni.
«Quel negozio è di un induista. Gli hanno sparato già due volte. È un informatore della polizia. Lo sanno tutti. Adesso è ancora più evidente, con questo posto di blocco di fronte alle vetrine».
La nuova guerriglia
Il giorno dopo ho bisogno di vedere meglio le cose con i miei occhi, senza il filtro del racconto di K., spesso così cupo e doloroso. M’incammino verso il lago di Dal, epicentro della promessa del governo di fare del travagliato Kashmir una capitale del turismo.
Questa è da sempre zona di confine. Tra le acque e le alghe, tra la pianura e la montagna, tra Islam e induismo, Pakistan e India, pace e violenza, passato e futuro, e, lassù in alta quota, tra India e Cina. Ma non è tutto così manicheo, sono frontiere che si compenetrano, dense di complicazioni.
Ci penso percorrendo 16 chilometri a piedi, per tre ore, per riflettere sulla storia del Kashmir e sul suo presente. Arrivo in un quartiere dove i barcaioli delle
shikare,
le graziose gondolette a remi usate anche per accumulare alghe nello sforzo di ripulire il grande lago inquinato, non sempre amano essere fotografati. A volte, invece, si mettono in posa con il narghilè che fumano in continuazione, sullo sfondo dei monti che si specchiano sul lago.
Ecco, il Kashmir è questo: uno specchio dei conflitti più seri dell’Asia, delle tensioni interne tra il 15 per cento della popolazione indiana, circa 200 milioni di musulmani, in tutta l’India, la minoranza religiosa più grande al mondo, e il governo di Delhi che ha promesso di rendere l’India più induista e fondamentalista.
Il Kashmir è anche specchio delle tensioni decennali con il Pakistan e con la Cina che spingono ai confini, oltre quelle vette acute e giovani, oggi accarezzate da vaporosi cumulonembi che promettono pioggia. Ed è l’epicentro di un incrocio di etnie, di lingue, di interessi che non trovano sempre il modo di evitare le abrasioni che fanno di questa regione la zona più militarizzata al mondo, con 900mila truppe indiane da una parte e 50milatruppe pachistane dall’altra.
In mezzo, ancora episodi di guerriglia nei boschi, nei villaggi, per strade. E che ora, visto che il Kashmir è sotto torchio, si spostano verso il Jammu, l’altra metà di questo Stato che nel 2019 perse la semi-autonomia quando il premier Narendra Modi revocò l’articolo 370 della Costituzione, facendo arrestare cinquemila civili e tutta la leadership politica, reprimendo con violenza le sommosse, mettendo il bavaglio ai media. Ora il Kashmir non ha più un governatore, ma tanti blackout di Internet, costanti ispezioni, interrogatori, posti di blocco, pressioni reali e psicologiche.
Nel Jammu da fine aprile a oggi sono stati uccisi in diversi attacchi 10 soldati indiani. A Poonch una granata ha massacrato i cinque soldati in una camionetta, a sette chilometri dalla Linea di controllo con il Pakistan. Il Fronte del popolo antifascista (Paff), affiliato a Jaish-e-Mohammed, ha rivendicato l’attacco. A Rajouri, invece, c’è stato uno scontro a fuoco. Feriti due ribelli, uccisi altri cinque soldati. A gennaio, sei civili erano stati uccisi a Dangri in un attacco rivendicato dal Fronte di resistenza associato a Lashkar-e-Taiba. Tutti gruppi emersi dopo il
2019.
Tre scenari possibili
Arrivato alla moschea di Hazratbal affacciata sul lago, dove si conserva un venerato capello del profeta Maometto, trovo rotoli di filo spinato a proteggere l’entrata. Continuando oltre i vivaci mercatini dei verdurai, a sinistra, verso i monti, tante ruspe, camion, operai che preparano il selciato per la pavimentazione. Sul lago, a bordo di dozzine di
shikare,
kashmiri di mezz’età riempiono le barchette di detriti. Al centro del lago, cinque dragatrici scavano il fondale in maniera più industriale.
Arrivo di fronte ai giardini fioriti di Nishat, affollati dagli autobus e dall’allegria ridanciana dei turisti indiani. Ecco l’obiettivo del governo: riportare qui questo genere d’escursionismo, arricchendo Srinagar e il lago di Dal con il turismo di massa della classe media che accorre a farsi le foto con gli abiti kashmiri tradizionali presi in affitto in riva al lago, o per un giretto romantico inshikara.
Noto della commozione al centro del lago: i venti fanno scuffiare una dozzina d’imbarcazioni, mandando a mollo una ventina di turisti.
Dov’è il pericolo, allora, oltre ai venti forti e le shikare instabili? C’è eccome. In quegli attacchi letali nel Jammu e nella rabbia sopita di K. nella passeggiata tra i quartieri dove i soldati non entrano per non far scoccare la scintilla. E per non riaprire una storia iniziata nel 1947, quando il maharaja indù Hari Singh che governava un Kashmir a maggioranza musulmana restò troppo a lungo nell’indecisione se annettere il regno all’India indipendente o al neonato Pakistan. Spazientiti dall’indecisionismo del maharaja, gruppi tribali pachistani invasero il Kashmir, spingendo il maharaja a chiedere l’intervento dell’India. Il tempismo è motivo di contesa ancor oggi. I pachistani dicono che l’esercito indiano era già entrato in Kashmir prima della richiesta del maharaja. L’India sostiene d’essere intervenuta dopo. Le truppe indiane occuparono due terzi del territorio, quelle pachistane il rimanente terzo, a nord (cedendone successivamente una parte alla Cina).
Da allora il Kashmir, occupato dal Pakistan a nord e dall’India a sud, è diviso in tre direzioni possibili.
La prima, più plausibile, è l’annessione conclamata dell’India, cosa che Modi sembra destinato a ottenere. Nel 2020 il governo omise la necessità d’essere residenti permanenti nel Kashmir per poter acquistare casa e terreni: un tentativo di normalizzare un contesto anomalo, ma duramente criticato dai molti kashmiri musulmani che lo interpretano come un invito ad aumentare la popolazione indù esogena.
La seconda, è la richiesta del Pakistan di riavere l’intero Stato. Islamabad chiede un referendum che Delhi concede, dicendo che poiché si vota già nel Kashmir nelle elezioni indiane ciò dimostra che il territorio è parte dell’India.
La terza opzione, invisa sia dal Pakistan che dall’India, ma sancita dalla dichiarazione dell’Onu sull’autodeterminazione dei popoli, è quella di un referendum per l’indipendenza del Kashmir come Stato autonomo.
Su questi punti si sono combattute diverse guerre indo-pachistane, dal 1947 a oggi. La rivoluzione islamica del 1989 amplificò le sollevazioni popolari nel Kashmir indiano, con i combattimenti narrati da K. che spinsero all’approvazione della Legge per i poteri speciali delle forze armate (Afspa). Ciò diede mano libera all’esercito nel reprimere le ribellioni, fomentate e finanziate dal Pakistan, secondo Delhi. Nel 2016, il governo Modi, che aveva promesso interventi severi, autorizzò esercito e polizia a sparare sui manifestanti con pallini da caccia, causando nell’arco di quattro mesi 90 morti e 17mila feriti, tra i quali centinaia di accecati.
Su tutta questa storia di sangue, il governo dei fondamentalisti nazionalisti indiani ha cercato di dare una mano di colore per il summit del G20. Come se la Storia si potesse pitturare con un colpo di pennello arancione bianco e verde, i colori della bandiera che ora illuminano con i neon le strade principali. Il logo del G20 è stato arricchito dal fiore di loto del partito di governo, un timbro iconico per un ritorno elettorale.
Ciclabili, zone pedonali, zone liberate dal filo spinato, murali che inneggiano alla serenità con ritratti di pavoni e di chitarre folkloristiche. Strade ripulite, ma scuole chiuse e negozi obbligati a restare aperti per dare un
senso di lietezza e normalità. E, difatti, Srinagar appare in tutto il suo splendore montano che ricorda un po’ la Svizzera, un po’ l’Austria, le nostre Dolomiti venete e trentine.Si è lavorato anche di notte, col freddo. I commandos dei corpi speciali hanno pattugliato il lago di Dal con i gommoni. Le case-albergo galleggianti sono state riassestate per i turisti indiani arrivati a fare da contorno alle delegazioni del G20. «È come mettere un coperchio sulle nostre miserie», ha commentato un cittadino che, anche lui, non vuol essere menzionato per nome.La visita dei delegati internazionali nella vicina stazione sciistica di Gulmarg è stata però sospesa «per ragioni logistiche», cioè per timore di attacchi terroristici. Io ci sono arrivato in due ore d’auto, all’ombra delle pendici ancora innevate, dove d’inverno ci sono delle piste nere con neve croccante. Ho trovato centinaia di turisti indiani che, a dorso d’asinello, facevano il giro dei monti per rivedere i set dei film di Bollywood degli anni ’80. A pochi chilometri a nord, quel giorno, ci sono stati scontri a fuoco tra ribelli e forze armate.Parto di nuovo, salgo verso il confine orientale del Kashmir, verso le montagne. Vado a incontrare un uomo di 35 anni la cui famiglia viveva in un villaggio che è stato prima indiano, poi pachistano e poi di nuovo indiano: uno zio è finito da una parte, sua madre dall’altra, una famiglia spaccata.L’auto s’inerpica oltre il Kashmir, sempre più in alto, sull’Himalaya. Da 1.500 metri arrivo ai 2.600 metri di dislivello di Kargil, tecnicamente nello Stato del Ladakh, ma culturalmente sempre zona musulmana, con minareti, moschee e il canto del muezzin che ti sveglia alle tre del mattino. Qui è stata combattuta la famosa battaglia di Kargil del 1999, quando un’altra invasione dal Pakistan fu respinta oltre le montagne, come viene ricordato in un museo d’alta quota sulla strada verso quel crogiolo di etnie, lingue e visi delle tribù Mon, cinesi, indiane, caucasiche, centro- asiatiche che si incrociano arrivando in città.Elyas Ansari viene a incontrarmi in albergo e ci avviamo su strade da cardiopalma lungo il fiume Indus che porta in Pakistan. Eccolo lì, il Paese nemico, potresti arrivarci a piedi in mezz’ora. Ma non puoi. È una delle frontiere più calde al mondo tra due nazioni con un arsenale nucleare che hanno costanti schermaglie esplosive, con tanto di pilota indiano catturato e poi liberato nel 2019.Ora, nella jeep che arranca lungo la sterrata, risicando l’abisso, a parlare senza pausa è Ansari. È un uomo dal viso buono e ben nutrito, le spalle spioventi come le palpebre e gli angoli della bocca, pronto però a sorridere nelle rare occasioni, come quando, dopo la nostra visita, ci fermiamo per un picnic all’ombra di un albicocco.«Il nostro modo di vivere, le nostre usanze e costumi stanno scomparendo», mi dice nel frastuono della sterrata polverosa che secca narici e gola. «Intendo il cibo che coltiviamo qui. Che sta svanendo perché non c’è più abbastanza domanda, perché la gente vuole mangiare cose diverse, piatti che vanno di moda nel resto dell’India, non quello che cresce sui monti. Vogliono le marche». L’auto fa una svolta e si apre una valle verdeggiante punteggiata qua e là da casupole.«Quello era il confine con il Pakistan nel 1971», dice Ansari indicando il crinale di un monte. «Ma dopo gli scontri, il mio villaggio, Hunderman, e la nostra montagna sono entrati a far parte dell’India. Da allora una parte dei miei parenti sono rimasti dall’altra parte, in Pakistan. I turisti vengono a visitarci, e noi vorremmo mostrar loro come si viveva. Ma a loro interessa solo vedere i luoghi delle battaglie del 1971 e anche di quelle del 1999 che ho vissuto anch’io. Che poi è il motivo per cui non parlo l’inglese, ma solo l’hindi, il balti e il purgi, le nostre lingue di qui. Per due anni non ho potuto andare a scuola per colpa della guerra. Vede quel sentiero che sale verso il villaggio? Da piccolo, avrò avuto poco più di 8 anni, accompagnavo mio padre con gli altri uomini del villaggio. Ci avevano incaricati di trasportare armi e munizioni ai soldati che combattevano nelle vette per fermare i pachistani. Portavamo l’artiglieria a piedi, di notte, senza torce elettriche, fin oltre i 3mila metri, cercando di vedere dove mettevamo i piedi, nel buio. Quando è finito tutto, sono rimasti solo i campi minati. Ci sono ancora. Ma abbiamo vinto. Abbiamo ricacciato i pachistani».Tra quei pachistani oggi però c’è anche suo zio Hussain Khan. Ci addentriamo nel villaggio-museo, tra casupole con il soffitto bassissimo, tra cimeli di famiglia, i fucili, i mortai della cucina e la lettera che lo zio Hussain spedì alla sorella Hamshira Sahiba, mamma di Ansari, dopo la diaspora: «Ho scritto molte lettere, ma non ho avuto risposta. Se ho fatto qualcosa di sbagliato, allora chiedo scusa». Tracce di strappi familiari dovuti alla lontananza, alla censura, a una realtà familiare divisa dalla storia e la sua violenza.«Ora qui ci sono soprattutto impieghi statali. Gli sbocchi sono pochi. O vai nell’esercito, fai la guida turistica, o l’operaio sulle strade. Vede quella casetta? Là è già il Pakistan. La mia famiglia si trasferì quassù perché era tutto verde, scendeva molta acqua dai picchi».«Ma non si vede più molto verde ora. Cos’è successo?». «L’acqua è inquinata da bombe e mine. Qualcosa è cambiato nella morfologia. E il riscaldamento climatico ha seccato quasi tutto. Come vede c’è ancora qualche albero, abbiamo un orto, ma sempre meno acqua per irrigarlo. Sono rimaste due famiglie. Dieci se ne sono andate dopo la guerra del 1999. Ho un dolore nel cuore perché lo zio Hussein e i miei cugini sono rimasti nel Kashmir occupato dal Pakistan, a più di 240 chilometri da qui. Dal 2019 ci sentiamo al telefono e di recente anche in videochiamata».Qui c’erano fattorie con capre, pecore, vacche e yak. Si saliva alle alture per cercare l’erba più fitta. Poi si tornava in queste case di roccia, terra, fango e sterco. «Lo sterco si usa ancora per i mattoni, come fertilizzante e combustibile. Piantavamo orzo e frumento. Avevamo albicocche, mele e noci. Ma senz’acqua ci cresce poco. Questo canale era pieno fin qui. C’era un ghiacciaio lassù. Ora è scomparso».Uscendo dal villaggio, popolato più che altro da fantasmi e sparuti turisti, tra le pietre scottanti e qualche scheletro d’albero, mi fermo a parlare con Salman, cugino molto più anziano di Elyas. Vive ancora qui, fa il guardiano del museo, accudisce il bestiame, cura quattro piantine. Gli chiedo com’è vivere qui, a lui che è reduce di tre guerre tra India e Pakistan.«La vita e la morte», risponde, «assumono un significato molto diverso in una zona di guerra». E non dice altro.La minaccia cineseE poi c’è la Cina, lassù a nord. Che spinge. Letteralmente, visto che tre anni fa truppe indiane e cinesi si sono fronteggiate sul confine sino-indiano lungo 3.440 chilometri. Schermaglie culminate nella sanguinosa battaglia della valle di Galwan, di cui ora si sta girando un film d’azione per Bollywood. Dozzine di soldati si picchiarono a sangue con bastoni chiodati e manganelli, evitando di sparare. Morirono almeno 20 soldati indiani e quattro cinesi. Nel gennaio di due anni fa ci sono stati altri feriti al confine dello Stato indiano del Sikkim, tra il Bhutan e il Nepal, dov’è scappato anche qualche sparo. Anche ai confini con l’Arunachal Pradesh aumentano le provocazioni cinesi. Gli incontri diplomatici del più alto livello non danno frutti. L’India ha l’incubo dell’invasione del 1962, quando le truppe cinesi sconfinarono umiliando l’esercito indiano. E la Cina accenna all’unificazione del Tibet, di cui ha occupato il nord, allungando le mani sulle sue province meridionali, che sono in territorio indiano. Torno a pensare alla mia passeggiata attorno al lago Dal, a quello specchio d’acqua che riflette i nodi più inestricabili di questa parte dell’Asia. Percorrendo il lungo ponte che unisce una sponda all’altra, a metà del lago, resto ammirato dal riflesso delle cime innevate e dalle nuvole. È ora di pranzo, cammino da solo, vedo due o tre pescatori, qualche oca selvatica, un martin pescatore, un motorino con due ragazzi che sfrecciano nella direzione opposta.Rifletto sull’occasione mancata del Kashmir, incastrato dalle tensioni interne, e da quelle esterne, dal Pakistan e le sue rivendicazioni territoriali, dalla Cina che vuole allargare le sue frontiere, e più di tutto penso alla popolazione musulmana che qui si sente rappresentativa dell’ampia minoranza islamica sempre più vessata in India. Camminando su questo ponte considero che è proprio quello che manca: un ponte. Dal 2003 a oggi, a parte un orripilante attacco terroristico a Mumbai nel 2008, il contributo dei musulmani indiani ad al Qaeda, all’Isis e ai Talebani è quasi inesistente grazie al lavoro di controllo e prevenzione dell’esercito e dell’intelligence indiani, certo, ma anche per merito di una storica integrazione con gli induisti e con le altre religioni, grazie alla Costituzione laica e all’impatto del sufismo in India. Invece di riconoscerlo e di approfittarne per cementare la comunità islamica all’identità nazionale, il governo indiano, eliminando in modo poco democratico la semi-autonomia del Kashmir, unico Stato a maggioranza islamica in India, senza interpellare i suoi abitanti, ma imponendo lockdown, arrestando i leader politici, sospendendo le comunicazioni e occupando militarmente, oltre a varare leggi che ghettizzano sempre più i musulmani, si muove per logorare il ponte inter-religioso che dovrebbe invece rinsaldare.La profonda moderazione dei musulmani indiani, sempre più spesso vittime di violenze religiose da parte degli estremisti indù, oppressi da leggi che li prendono di mira, è uno degli aspetti meno studiati della tematica del jihadismo globale. Come mai l’estremismo islamico ha trovato così pochi adepti tra i 200 milioni di indiani, finora? Proprio per il tradizionale ethos pluralistico e democratico, la maturazione di una lunga storia di relazioni tra religioni, e le tradizioni linguistiche, musicali e rituali che le diverse comunità religiose hanno in comune. L’integrazione, in altre parole.Può sembrare frivolo, ma alla radice di questa convivenza c’è anche la musica, i film di Bollywood, il risotto biryani, il tè, la samosa, il cricket, elementi di incontro tra diverse fedi. Ponti. Poiché, nonostante l’incredibile diversità linguistica, religiosa, etnica, esiste una matrice unificante anche nelle diversissime realtà indiane. Ma va coltivata, non erosa.Vedendo le donne del Kashmir navigare tra i canali accanto ai campi, sulleshikareondeggianti, penso che l’India potrebbe ergersi ad esempio di ciò di cui anche il Nord globale ha bisogno: una cultura che riesca a integrare e tessere le diverse comunità religiose, nonostante le occasionali sommosse e la politicizzazione della fede che si sono viste ciclicamente in questo grande Paese. Il prossimo passo per l’India potrebbe essere di insegnare al resto del mondo come si costruisce il ponte della convivenza, invece di minare le sue basi in questo paradiso terrestre costellato di smart bunker pennellati di blu.