la Repubblica, 18 giugno 2023
Intervista al figlio dei Rosemberg
«Il 19 giugno 1953 giocai a baseball con mio fratello Michael fin quando fu troppo buio per vedere la palla. Nessuno ebbe il cuore di dirci che Julius ed Ethel Rosenberg, i nostri genitori, erano già morti. “Old Sparky”, l’unica sedia elettrica di New York, era stata azionata prima del tramonto, in rispetto allo Shabbat ebraico. Gli avevano concesso un giorno in più perché il 18 era il loro anniversario di matrimonio. Li salutammo il 16: erano sereni. Ma avevo solo sei anni e non so se è un ricordo mio o il racconto di mio fratello che ne aveva dieci».
Settant’anni dopo, Robert Meeropol (il cognome è quello di Abel e Anne che adottarono gli orfani Rosenberg quando nessun parente volle prenderli in casa), avvocato in pensione, teme che la storia dei suoi genitori non sarà mai raccontata per intero. Il processo ai coniugi ebrei e comunisti, accusati nel 1951 – in piena isteria maccartista – di aver passato i segreti dell’atomica ai sovietici, è d’altronde ancora considerato fra le pagine più oscure della storia d’America. «In anni recenti sono emersi nuovi elementi che nessuno ha messo in fila», lamenta Robert, che nel 2004 provò lui stesso a raccontare la tragica storia col memoir An execution in the family,un’esecuzione in famiglia. Oggi sappiamo che Julius fece effettivamente parte di un network di spie legate all’Unione Sovietica: ma i documenti da lui consegnati non servirono a realizzare l’atomica. Ethel non era coinvolta: «La sua colpa fu non tradire mio padre».
Chi erano i suoi genitori?
«Figli del loro tempo. Cresciuti fra guerre e dittature, in un mondo diviso dove tutti prendevano posizione, divennero ferventi comunisti. Ho il doppio dei loro anni, non ho vissuto le loro esperienze, non so giudicarli. Li immagino pervasi da entusiasmo giovanile. Certo non meritavano una pena definitiva come la morte.
Sì, mio padre svolse attività illegali.
Se avesse passato anni in prigione non avrei da eccepire. Ma la pena fu sovradimensionata rispetto alla sua reale colpa. Pensate che chi passò davvero i segreti dell’atomica ai russi, il fisico Klaus Fuchs, restò in carcere nove anni appena. Mia madre forse sapeva dell’attività del marito: ma non era coinvolta. Lo dicono i file del “Venona Project”, i messaggi fra sovietici e loro agenti intercettati dai servizi Usa fin dal 1943. E documenti del Kgb emersi dopo la caduta dell’Urss: le spie hanno un nome in codice, Julius era “Antenna”, lei no. Pure David Greenglass, il fratello di Ethel che rubò i documenti e poi accusò i miei per salvarsi con la moglie Ruth, che era il corriere, lo ammise nel 2003: “Mia sorella era innocente, la sacrificai per la mia famiglia”».
Suo padre era una spia.
«Accettarlo è stato un lungo percorso emotivo. Nel 1975, certo della loro innocenza, iniziai con Michael la prima campagna per desecretare le carte su di loro.
Trovammo conferme ai nostri sospetti: le prove erano state costruite ad arte. Nulla, però, sulla loro innocenza. Ritenni falsi i file di Venona. A convincermi fu solo la confessione, fatta nel 2008 al
New York Times, di Morton Sobell: imputato coi miei genitori e condannato a trent’anni (ne scontò 17). A 91 anni ammise che con Julius aveva dato disegni di radar, jet, artiglieria ai russi».
Come reagì?
«Ho imparato che il mondo non è bianco e nero e in ogni storia ci sono sfumature. Non saperli totalmente vittime fu però a suo modo un sollievo. Sono il figlio, non l’avvocato dei Rosenberg. Volevo capire e le rivelazioni, insieme alle 800 lettere da loro scritte in carcere, mi hanno aiutato. Non erano i mostri dipinti all’epoca né gli innocenti scannati che credevo.
Ma attivisti morti per non tradire i compagni. Le autorità infatti sapevano che Julius aveva dato a Mosca solo informazioni minori.
Avevano prove contro di lui: ma non le usarono per non svelare a Mosca che intercettavano i loro messaggi. In piena caccia alle streghe volevano nomi: Ethel fu incriminata per convincere Julius a parlare. Resta la ferita personale.
Con noi si dissero “totalmente innocenti” in ogni lettera. Forse convinti che il fine giustifica imezzi. Ma è difficile da accettare».
Eravate bambini con un nome pesante...
«Fu come essere figli di Osama Bin Laden dopo l’11 settembre. I nostri parenti erano terrorizzati. Mia nonna materna, madre del David che mandò la sorella al patibolo, ci portò all’orfanotrofio dove restammo mesi. Gli zii paterni non si fecero avanti temendo che li avremmo mandati in rovina.
Quando i Meeropol chiesero di adottarci, i nemici dei miei tentarono di impedirglielo: probabilmente volevano che li dimenticassimo. Fu un giudice malato terminale ad affidarci ad Abel ed Anne, non curandosi delle pressioni. L’Fbi continuò a starci addosso. Dai dossier ho scoperto che vennero pure nella mia scuola elementare chiedendo al preside di tenermi d’occhio. Li cacciò: e chissà se aprirono un file anche su di lui».
Una nuova famiglia.
«Abel era uno scrittore, autore del brano Strange Fruit reso famoso da Billie Holiday dove si denunciava il linciaggio dei neri. Anne una maestra. Volevano dei figli ma adottare quelli dei Rosenberg fu unatto di coraggio. Ci diedero un nome e una vita tranquilla, senza nasconderci nulla. A casa c’era uno scaffale dedicato a Ethel e Julius, nel caso volessimo sapere senza chiedere. Erano di sinistra, più intellettuali dei miei. Unico gap, la differenza d’età: di 40 anni più grandi, non capirono gli anni Sessanta».
Che cosa ha appreso dai suoi genitori?
«Nell’ultima lettera scrissero: “Moriamo confortati dalla certezza che altri porteranno avanti i nostri ideali”. Ho provato a farlo a modo mio, creando il Rosenberg Fund for Children che si occupa di figli di carcerati. Nel nome dei miei genitori ne abbiamo aiutati tanti. Lo considero una “vendetta costruttiva”: è il mio più grande successo. Oggi se ne occupa mia figlia Rachel: quei valori sono stati trasmessi».
Nel 2015 avviaste la campagna per riabilitare Ethel...
«Il giudice accusò mia madre di “amare il comunismo più dei figli”.
Non è vero, ma fece certo una scelta estrema. Morto Julius, il rabbino la scongiurò: “Salvati, fai un nome, anche falso”. Lei rifiutò: “Sono innocente. E pronta”. Fu una vittima collaterale e l’eventuale perdono non basta. Nel 2015, in base a nuove prove, ne chiedemmo dunque la riabilitazione. Obama non fece in tempo. Evitammo Donald Trump: giacché il suo mentore era il procuratore Roy Cohn, artefice dell’esecuzione di Ethel».
Confidate in Joe Biden?
«L’invasione dell’Ucraina rende tutto più difficile. Riabilitarequalcuno accusato di aver passato segreti militari ai russi, sia pur settant’anni fa, è politicamente inopportuno. Ma non ci perdiamo d’animo: la National Security Agency ha i file su Ethel. Con l’aiuto del deputato Jim McGovern, abbiamo chiesto di declassificarli, certi che ridimensioneranno ulteriormente il suo ruolo. Intanto nel 2019 la studiosa Anne Sebba ne ha per la prima volta raccontato la storia distinta da quella di mio padre inEthel Rosenberg: An American Tragedy. Dovevano trarne un film, la pandemia fermò tutto. Io e Micheal siamo anziani: riabilitare nostra madre è il nostro ultimo desiderio».