Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 18 Domenica calendario

Intervista a Ivano Fossati

«Nell’universo della mia pazzia, ho una nuova teoria, per me la gente vola». È difficile spiegare l’effetto che fa. Ma, insomma, Ivano Fossati è lì, in carne e ossa, seduto su una poltroncina di pelle marrone con il suo fisico imponente, un gomito appoggiato a una tastiera e un sorriso lungo e misterioso abbozzato sul volto inevitabilmente familiare. La camicia di jeans aperta su una maglietta scura, le scarpe da ginnastica, il pizzetto bianco e quelle dita che si muovono nell’aria come se avessero una vita indipendente. Intorno ci sono le chitarre, un microfono, molti libri e un Golden retriever che si rotola sul tappeto (Liù, femmina, tre anni). Naturalmente, in un angolo, un mappamondo.
Lui, il Maestro (suppongo che odi essere definito così) risponde con quella voce che diventa subito canzone. Sarà il tono, sarà il modo, sarà la musica che gira intorno, certamente è il senso. Vulgata giornalistica: Fossati è spigoloso, schivo e austero. Così, a occhio, è una bugia. Oggi certamente no. Gli intellettuali, i Delirium, Mimì e Loredana, Battisti e Oscar Prudente, Keith Richards e Mina, Schlein e Meloni, Berlusconi e gli Anni Settanta, Guido Gozzano e il padre violento («Potevo diventare un brutto uomo»). Le donne. Sua madre e Mercedes (sua moglie) che hanno lavorato su di lui come fanno i giapponesi con i vasi rotti, li incollano con l’oro per renderli più belli. Genova è sdraiata sotto la collina e l’odore del mare passa dalla finestra aperta. È un soffio lontano, leggerissimo, che però fa girare la vela della conversazione.
«Alzati, che si sta alzando la canzone popolare». Ivano Fossati si aspettava che andasse in questo modo?
«Guardi, è una canzone che ho scritto quattro anni prima che l’Ulivo la utilizzasse per i suoi comizi. E aveva un intento completamente diverso».
Non era un inno per il centrosinistra?
«Solo una canzone facile da cantare assieme. Con l’obiettivo preciso che ha la musica popolare: unire le voci. Era già la sua funzione nell’antichità, indipendentemente dal fatto che si parlasse di amore, di lavoro o di piccole cose. Quando l’ho buttata giù pensavo a quello, non alla politica».
Il vento del popolo si è messo a soffiare a destra. Stupito?
«Non direi. La verità è che la nostra capacità di previsione è molto limitata. Io nelle previsioni umane non credo più da tempo».
Chi ha sbagliato più forte in questi anni?
«Vogliamo fare una classifica?».
Basta il primo posto.
«Chi ha distrutto la scuola. La devastazione sistematica dagli anni Sessanta ci ha portato ai risultati di oggi. Se si può parlare di demerito, di colpa, quello è il più grande».
Lei si sente un uomo di sinistra?
«Mi ci sono sentito senz’altro. Fino a quando ho visto che stavo camminando sulle sabbie mobili. Oggi non mi definirei più così».
Come si definirebbe?
«Difficile dirlo. Amo scartate, come fanno certi cavalli che non vogliono farsi domare. Per questo ho risposto così. Poi c’è il mio lavoro che parla per me. E anche se le idee corrono in fretta e le cose cambiano, in effetti le mie idee di fondo sono rimaste quelle».
Chiuda gli occhi, ha 16 anni qual è la prima immagine che vede?
«Non è un’immagine, è una sensazione. Una ingenuità e un entusiasmo senza contenimenti».
Dovuti a che cosa?
«La musica. Quando abbiamo preso in mano le prime chitarre tra noi e il grande business americano non sentivamo differenza. Crescendo abbiamo capito che invece c’era. Noi suonavamo, loro facevano sul serio».
«Smetto di andare a scuola, faccio il musicista». Sua madre pensò che fosse un matto?
«Mia madre era una persona con un’apertura mentale piuttosto rara. Mi disse: va bene, basta che sia davvero un mestiere. Non voglio vederti in giro per casa con la tua chitarra a fare lo scemo».
Coraggiosa.
«In famiglia c’erano già dei professionisti. La sua sicurezza derivava da quello. Ma devo dire che la sua reazione stupì anche me. Anche perché la nostra situazione economica non era propriamente florida».
Quanto ci mise a ottenere il primo ingaggio?
«Due mesi. Mi chiamò un’orchestrina che suonava in riva al mare in un locale che esiste ancora in Corso Italia. Serviva un sostituto per il chitarrista».
Come andò?
«Decisero di tenermi per tutta l’estate».
Suonava e cantava?
«All’inizio suonavo. Poi il cantante si prese il mal di gola. Mi fecero esibire con “Let’s go get stoned”. Un brano che cantava anche Ray Charles. La bofonchiai con un inglese fonetico più che grammaticale».
Un successone?
«Non so. Comunque me lo fecero rifare».
Che rapporto ha con la sua voce?
«Non buono. Avevo imparato a suonare il piano, la chitarra e il flauto. Sognavo di fare il jazzista. Cantare era l’ultimo dei miei obiettivi. Neppure adesso amo la mia voce».
Qual è la voce più a voce più bella che ha sentito?
«Nick Drake».
Quello di Pink Moon?
«Lui».
Tra gli italiani?
«Lucio Battisti. Nonostante molti si ostinino a dire che non è stato un grande cantante».
Perché lo dicono?
«La verità è che tantissima gente non ci capisce niente».
Che rapporto ebbe con Battisti?
«Me lo presentò Oscar Prudente. Stava registrando “Il mio caro angelo” e ci raccontò come avrebbe usato la chitarra elettrica in un modo semplice, ma che nessuno aveva mai utilizzato. Ci contagiò immediatamente».
Deve molto a Oscar Prudente?
«Senza di lui non avrei avuto questa carriera. Era poco più grande di me. Mi sentì suonare e disse: ti porto a Milano. Io non ci sarei mai andato. Era caparbio. Entusiasta. Bravissimo. Insieme funzionavamo».
Quando scoprì di avere una capacità di scrittura diversa dal normale?
«Non saprei dire l’anno, ma so che a un certo punto ho cominciato a scrivere dal niente».
Che cosa significa?
«Che non avevo un progetto. Non mi ero detto: adesso voglio scrivere canzoni. Una mattina ho preso la chitarra e invece di suonare la canzone di un altro ho fatto la mia».
Titolo?
«"Canto di Osanna”, registrata con i Delirium, un successo europeo. L’ho scritta in cucina, guardando la lavatrice. Ma non è che avessi il fuoco sacro. Non ce l’ho mai avuto».
La vocazione, quella almeno ce l’aveva?
«Quella sì. Unita a qualche talento. Ma il fuoco sacro davvero no. Quando ho smesso di fare concerti tanti si mi hanno detto: ma come, non ti mancherà il palcoscenico?».
Domanda giusta.
«Domanda sbagliata. E comunque risposta semplice: no. Non avevo intenzione di morire sul palco come gli attori dell’Ottocento. Volevo decidere io. Peraltro quando finivo i concerti, non vedevo l’ora di scendere dal palco».
Non amava neppure suonare?
«Quello moltissimo. Mi sentivo a mio agio. Era come entrare in una bolla e ho sempre fatto mia una frase di Keith Richards: i concerti sono una meraviglia perché in quelle due ore nessuno può romperti le palle».
Perché con i Delirium finì subito?
«Colpa di Sanremo».
Mike Bongiorno presentatore, 1972. Che cosa successe?
«Sanremo non ci serviva, che “Jesahel” avrebbe funzionato era chiaro a tutti. Noi non volevamo andare, la casa discografica insistette».
Che male vi fece?
«Salimmo sul palco, cantammo e alla fine sentimmo un po’ di fermento. Era andata bene. Poi ciascuno passò la serata per conto suo. Io a bere birra».
Non ho ancora capito il problema.
«Il mattino dopo, nel nostro alberghetto arrivò una marea di giornalisti e di fotografi. Un assalto. Fu evidente che era successo qualcosa di inaspettato. Eravamo senza manager, senza produttore, senza ufficio stampa. Quel successo sgangherato ci travolse. Ma vendemmo oltre un milione di dischi».
Jesahel vi fece ricchi?
«No. Ho appena ritrovato il contratto in un archivio, ci garantiva il 4% dei profitti. E noi eravamo in cinque. Non faceva neanche l’1% a testa».
Faccio un salto avanti, 1978. Lei scrive tre testi clamorosi per Anna Oxa, Loredana Bertè e Patty Pravo: Un’emozione da poco, Dedicato e Pensiero Stupendo.
«Avevo un contratto con la Rca. Si accorsero che ero un autore da tenere d’occhio. Mi mandarono in America a collaborare con un gruppo e mi chiedevano canzoni in continuazione. Un giorno il direttore generale della casa discografica mi disse che voleva qualcosa di eclatante per Nicoletta Strambelli».
Patty Pravo?
«Patty Pravo. Ne parlai con Oscar. Abbiamo qualcosa? Ci venne in mente “Pensiero Stupendo"».
L’aveva già scritta?
«Sì. E l’avevo messa da qualche parte in un cassetto».
Non le piaceva?
«Tutt’altro. Solo che all’inizio, quando proponevamo le nostre canzoni, nessuno le voleva. Quando hanno cominciato a cercarci il nostro divertimento maggiore era quello di riportare i testi che ci avevano bocciato. Pensiero Stupendo ci mise dieci giorni per diventare un successo».
Parlava di un triangolo.
«Per non capirlo bisognava avere il prosciutto sugli occhi, o, meglio, sulle orecchie».
In molti finsero di averlo. Ci furono un lungo dibattito e molti scrupoli moralistici.
«Eppure io credo, se posso dirlo senza presunzione, che il tema fosse trattato con delicatezza, persino con eleganza. Ma è difficile negare che il testo fosse chiaro».
Erano due donne e un uomo o due uomini e una donna?
«Sulla copertina del disco non era specificato».
E nella sua testa?
«Forse è la prima volta che mi viene chiesto. Immagino di avere ragionato su due donne e un uomo, il contrario sarebbe stato un po’ più greve».
C’è mai stato niente tra lei e Loredana?
«Assolutamente no. Io con lei, e grazie a lei, ho prodotto tre dischi e lavorato molto in America. Era diverso dall’Italia. Le difficoltà erano più grosse. Ma andò così bene che mi chiesero di rimanere a New York a fare il produttore. Rifiutai».
Perché?
«Ci pensai, scelsi la famiglia, avevo un figlio piccolo».
Rimpianti?
«No. Me li vieto. E poi chi lo sa. Avrei guadagnato delle cose e ne avrei perse delle altre».
Com’era New York?
«Viva. Andavamo a cena al Mister Ciao con i musicisti. Era facile incontrare Mick Jagger o Andy Wahrol».
Fa molto droga e rock and roll.
«Io nella droga non mi ci sono mai buttato dentro. Ero impermeabile. Non so se fosse disinteresse o paura».
Strano per una rockstar.
«Mai stato, mai sentito. Nemmeno una star. Ho sempre lavorato con le mani nella musica. E farlo da dietro le quinte come produttore è stato per me uno dei mestieri più divertenti».
Il 1978 fu anche l’anno del rapimento Moro.
«Il Paese era oscuro già da parecchio. In quel decennio sembrava che qualcuno avesse abbassato la luce. La sera le strade erano vuote. L’appartenenza obbligatoria. Io e Oscar, per avere pubblicato un album con delle canzoni d’amore fummo accusati di essere dei fascisti. Anni difficili».
Poi arrivò la Milano da bere.
«Non mi sono piaciuti tanto neppure gli anni Ottanta».
Silvio Berlusconi incarnò la sbronza collettiva.
«Non sono mai stato, come dire, un suo fan».
Si sente un intellettuale?
«Me lo sono sentito ripetere spesso e ho sempre cercato di respingere la cosa».
Snobismo?
«Figuriamoci. Ma ho bene in mente che cos’è un intellettuale. In Italia per diventarlo basta mettere insieme tre aggettivi. Penso lo stesso quando mi danno del poeta. Forse non sapendo che cosa siano letteratura e poesia».
Cos’è la poesia?
«Io ho un amore per Guido Gozzano».
La signorina Felicita ovvero la Felicità?
«Esatto. Mi dà fastidio pensare che da ragazzino, a scuola, lo trattavano come un minore. Ha qualità, ironia, sensibilità, intelligenza e sensualità. Ha presente Le Golose?».
Vado a googlare: io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie.
«Ecco. E dovrebbe andare avanti. Allusivo e sensuale in un tempo in cui era praticamente proibito».
Ci crede al pensiero unico della sinistra (ossessione della destra)?
«No. Sarebbe come smettere di credere nell’intelligenza delle persone».
Fazio via dalla Rai la colpisce?
«Non lo sapevo neanche. Feci uno special con lui nel 2012 quando lasciai il palco. Da allora ho smesso di usare i primi sei canali del telecomando».
Le piace Elly Schlein?
«È una donna, dunque ha una marcia in più. Oltretutto parla chiaro e questo mi bendispone».
Giorgia Meloni?
«Non è un po’ presto per pensare qualcosa di Giorgia Meloni?».
Ha una storia.
«Ma io parlo del suo operato di governo. Ci sono quelli che hanno sempre un’opinione in tasca e ce l’hanno già il giorno dopo. Io no. Certo, questa apertura a destra del Paese mi lascia perplesso. Sono anni che parliamo di una destra democratica, europea, anche se quando lo diciamo poi ci viene da fare l’espressione che ha lei in questo momento».
Mi perdoni, mi è passata davanti l’immagine di Ignazio La Russa che dice: in via Rasella perse la vita una banda di semi-pensionati altoatesini.
«Capisco, ma se potessi fare un discorso più generale direi che ci sono cose che non riusciamo a superare e forse facciamo bene. Io so esattamente che cosa mi piace e che cosa no, ma non sono il più adatto a dare giudizi».
Fossati, parliamo di donne?
«Oddio, sono troppo vecchio».
C’è chi mi odia per gli amori di un’ora e chi mi cerca ancora. Era il turbinio della vita o una licenza poetica?
«Quando fai il mestiere che ho fatto io e hai venti, trent’anni, entri nel frullatore».
E?
«Certamente non è sgradevole».
Ha inciso molto sul suo ego?
«In verità no. Mi sono sentito molto spesso inadeguato. Dei sentimenti sono stato capace di scrivere, ma ho già confessato in passato di non averci capito gran che. Ho dato la colpa alle valigie che avevo sempre in mano. Era più facile».
Parlare di Mia Martini l’affatica?
«Non mi affatica per niente. Mi affatica il fatto che di lei si parli sempre con pruderie».
Ha avuto un destino complicato.
«Sì, anche se è vero fino a un certo punto. La cosa che andrebbe detto a gran voce, sottolineandolo con stendardi e bandiere, è quanto grande fosse quell’artista».
Qual era la sua differenza?
«La prima cosa che ti colpiva era la tecnica smisurata. Unita a una intelligenza e a una sensibilità incredibili, perché la tecnica senza intelligenza musicale non è niente».
Me lo spiega meglio?
«Il massimo si raggiunge quando il pensiero lavora una frazione di secondo prima dell’emissione della voce. Una cosa che a Mia Martini succedeva. E che succede a Mina».
L’ha molto amata o lo ha scoperto dopo?
«È stata una storia con i suoi alti e bassi. Credo che il resto ce l’abbiano messo gli altri».
Musicalmente meglio Loredana o Mimì?
«Mia Martini era più sofisticata, cercava la raffinatezza. Avrebbe potuto scalare qualsiasi vetta. Loredana è una vera artista rock. Anche adesso. Va a fondo e risveglia quell’istinto primordiale che c’è in ognuno di noi».
Sua moglie Mercedes ha detto: Ivano è una persona di cui senti subito la mancanza anche se lo conosci da poco.
«Bellissimo. Non so se sia vero. Non mi sento indispensabile, uno che esce dalla stanza e lascia un vuoto. Ma mi fido di Mercedes e allora spero che abbia ragione».
Nell’universo della sua pazzia la gente continua a volare?
«Bisogna essere un po’ fuori di testa per scrivere una frase così. Però funziona. Forse sono io che ho smesso di volare. Forse oggi vivo quello che mi sono guadagnato».
Ha paura della morte?
«No. Ma della sofferenza sì. L’ho vista da vicino».
Quando l’ultima volta?
«Mia mamma. L’ho vista stare male anche negli ultimi istanti. Avrei volentieri preso quella sofferenza su di me».
Quello vuole dire amare.
«È stata una guida per me e per mio figlio, ci ha talmente travolti di amore, che è inevitabile».
Che idea le rimane di suo padre?
«Orribile».
Anche dopo tanti anni?
«Mio padre oggi sarebbero uno di quelli monitorati. Era violento».
Anche con lei?
«No. Con mia madre. Ho assistito a cose che non auguro a nessuno».
Le ricorda ancora?
«Ho quasi 72 anni, ma quella violenza la vedo con la stessa chiarezza con cui vedo quel quadro. Eppure questa ferita non mi ha impedito di avere una mia famiglia. A volte, quando ne parliamo, mia moglie mi dice: è andata bene. Avrei potuto essere un uomo brutto».
Come è nata la collaborazione con Mina?
«Già negli anni Novanta avremmo dovuto lavorare assieme. Nel 2018 si è ripresentata l’occasione».
Ma lei non si era già ritirato?
«Sì, ma ho pensato: quella è Mina».
Esiste davvero?
«Esiste. Ed è sempre lei».
Uso un vostro verso per chiederle: qual è il suo primo pensiero in piena luce?
«So che dico una cosa da baci Perugina, ma è Mercedes».
Vede? È diventato sentimentale.
«Forse. Ma aspetto sempre che arrivi. E amo viaggiare con lei».
Fossati, dopo 50 anni di musica, pensa di averlo traversato il grande mare?
«Quelli che hanno studiato bene i greci mi hanno insegnato a non irritare gli dei. E io non vorrei farlo proprio adesso. Diciamo che sono ancora in viaggio. E che fino ad ora è andata bene». —